LA TESTIMONIANZA – Capire il male per arrivare al bene, la via di Giorgio Pacifici

«Invece, succede che nella società si diffonda come un virus mortale un’ideologia di disprezzo, intolleranza, di rancore, verso un gruppo che è visto come altro da sé. Quindi, un gruppo che deve essere deumanizzato, demonizzato. È sufficiente che si diffondano queste ideologie perché le pulsioni di odio e di violenza di ogni individuo si fondino e si aggreghino in un male collettivo. Io lo chiamo “agenzia del male” e così definisco questo male collettivo».
Questi sono solo alcuni dei pensieri espressi da Giorgio Pacifici durante uno dei Giorni della Memoria che organizzai dal 2015 al 2018. Giorgio Pacifici (1939-2025) si è spento, dopo alcuni anni di resistenza a un male che ha messo a dura prova la sua tenacia. Una malattia che ha anche impedito che noi potessimo sostenere quel dialogo continuo che da anni ci accompagnava. Non voglio scrivere di Giorgio Pacifici sociologo e analista politico, di questo si potrà trovare notizia su internet, ma di Giorgio che mi scriveva quando Leonardo, mio figlio, era piccolo: «Pensi che gli farebbe piacere ricevere in regalo una maglia di Ronaldo?». I due avevano solidarizzato subito parlando dei miti greci di cui erano grandi appassionati. E Giorgio ha scritto anche alcuni racconti su di essi, attualizzandoli e costruendoli con quella ironia che gli faceva da eco, come quando scrisse il nome della Polonia al contrario, Ainolop, in un testo che era contro la negazione dello storico antisemitismo polacco, anche a Shoah conclusa, e che porto al pogrom di Kielce nel 1946.
Giorgio Pacifici, sebbene fosse molto socievole, divertente e amante della convivialità, amava “sentirsi solo”. Dico amava, perché per lui “sentirsi solo” era un qualcosa che lo definiva. Non che lo fosse, solo, infatti era circondato dall’affetto sia dei suoi cari sia dei numerosi amici e colleghi, e la sua solitudine non aveva nulla di esistenziale, era un “sentirsi solo” che da contingente era diventato una scelta. Quel sentirsi soli, che in genere si deve a qualche grave perdita affettiva o alla migrazione, o alla ricerca di un assoluto, in Giorgio era diventato il suo punto di vista sulla vita, la visione da cui osservava il mondo. Non era però un utopista, poiché sapeva bene che i problemi della realtà vanno risolti con risolutezza e realmente, e neanche un nostalgico, poiché nelle sue analisi sulle trasformazioni sociali, sebbene producessero malessere e conflitti, vedeva anche i lati positivi del progresso. Il “sentirsi solo” di Giorgio Pacifici, e non scrivo quindi l’essere solo, era molto più vicino al sopravvissuto alla Shoah, il quale sa che quella esperienza farà un unicum della sua vita nella vita di tutti. E come nel sopravvissuto c’è la lotta perché il “mai più” sia e diventi una realtà, c’è anche la consapevolezza che quel male è esistito ed essendo esistito c’è, permane, finché non verrà trasformato.
Da qui, infatti, il suo studio e analisi su ciò che definì le “agenzie del male” che culminò nel libro Le maschere del male. Una sociologia, non un male metafisico o religioso e, quindi, eterno e irresolubile, ma umano e, quindi, sociologico. Quel male che può nascondersi per poi riesplodere inaspettatamente come avverte nei suoi due ultimi libri, scritti insieme a Renato Mannheimer, e dove nel tracciare dei puri dati analitici, sociologici, demografici, fa trasparire dai numeri la somma che può riproporsi come “agenzia del male”.
Giorgio non era solo attento ai numeri e ai dati statistici che gli servivano da base per le sue sociologie delle diverse parti del mondo o dei popoli che aveva incontrato (l’India), ma era anche attento alle parole, e su questo abbiamo avuto lunghe discussioni e dissensi anche fra di noi. E poiché è di questi giorni l’uso di un termine molto controverso, cito ancora dal suo intervento precedente: «E non mi piace utilizzare normalmente la parola genocidio, anche la parola di genocidio è usata a sproposito e sarebbe meglio che non venisse impiegata e caso mai sarebbe meglio si parlasse di sterminio o sterminio programmato. Genocidio è una parola assolutamente precisa come parola. Quando l’ha inventata il grande giurista Raphael Lemkin, un giurista il cui rigore scientifico e morale è fuori di dubbio, era assolutamente la parola giusta; dopo è stata abusata».
Fra i molti progetti ideati da Giorgio Pacifici uno ci ha visti impegnati per diverso tempo, quando nel 2019 si voleva creare un Centro Internazionale di studio su antisionismo e antisemitismo le cui premesse dovevano essere queste: “Centro internazionale di studi e ricerche sull’antisemitismo e l’antisionismo (Nome proposto: ISTAR – Intelligence, Surveillance, Target Antisemitism, & Research)…Il Centro programmaticamente non intende occuparsi di vicende interne alla politica israeliana, e delle problematiche delle diverse comunità ebraiche del mondo». Giorgio Pacifici conosceva bene le dinamiche sociali e l’animo umano che ne faceva dal suo “sentirsi solo” un uomo aperto al dialogo anche se questo poteva rischioso. Per questo voglio chiudere questo suo ricordo con una mail che mi inviò dopo aver visto il mio spettacolo: Io Gesù ebreo di Betlemme. E salutarlo così: «Ciao Giorgio!».

Grazie per il bellissimo spettacolo che hai offerto ai cittadini di Roma, bello il testo e la regia, bravi gli attori, ben inserita anche la voce africana e le percussioni.
Il tuo testo sulla figura di Joshua e il suo messaggio mi sembra più adatto ad aprire una discussione che a chiuderla.
Il mondo intellettuale ebraico è disposto a riappropriarsi della figura di Joshua? E dire: «Ci appartiene e continuerà ad appartenerci», per quanto possano essere state terribili per il nostro popolo le conseguenze storiche di alcune interpretazioni sbagliate di alcuni suoi giudizi…
È chiaro che il partito avverso a Joshua, il partito dei Farisei, ha vinto e ha improntato di sé nel corso dei secoli tutto o almeno gran parte del pensiero rabbinico. Ma è altrettanto chiaro che il pensiero essenico e quello dei “maestri di giustizia” deve essere recuperato…
Il tuo Joshua è una persona a cui ci si sente di voler bene, conosce i nostri dolori e le nostre vicende; mi sembra nei doni che fa, la stella gialla e la “tunica” del campo di sterminio, l’ebreo universale: quello odiato nei secoli da tutti coloro che volevano far prevalere il male.
C’è nel tuo Joshua un’altra grande verità: il rapporto con Maddalena, cioè la verità di quanto l’eros rappresenti la componente essenziale per ricongiungere “animus” e “anima”.
Ma siamo disponibili ad analizzare anche Maddalena, al di là della mitografia, in un contesto storico culturale preciso? 
Credo che a queste domande debbano rispondere il mondo ebraico e quello cristiano, con i loro esponenti più “aperti” al dialogo.
Giorgio

Vittorio Pavoncello