L’ANALISI/2– Pierre Martinet: La guerra è strutturale

L’intervista rilasciata in esclusiva da Pierre Martinet – ex agente della Dgse (il servizio informazioni all’estero della Francia) – a Tribune Juive, offre una lettura del conflitto israelo-palestinese che intreccia esperienza operativa, analisi strategica e riflessione civile. Martinet spiega che il 7 ottobre 2023 non è un episodio isolato ma un indicatore di continuità: se Israele non elimina completamente le forze del Hamas e i suoi alleati regionali, episodi simili si ripeteranno. Ogni esitazione europea o internazionale nella gestione degli ostaggi o nella repressione dei gruppi armati equivale a spianare la strada a nuove violenze, perché la struttura di Gaza e il sostegno esterno – dal Qatar all’Iran – assicurano capacità operative e continuità organizzativa. L’occupazione del territorio, la scoperta di tunnel e di infrastrutture civili convertite in basi militari, l’impossibilità di distinguere terroristi e civili mostrano la complessità di una guerra che non può essere affrontata con misure parziali o negoziati intermittenti. Per Martinet, Gaza stessa è una contraddizione geografica e politica: un’enclave che serve come base permanente per attacchi contro Israele e che non può essere lasciata intatta. La Palestina, suggerisce, dovrebbe trovare spazio in un territorio più ampio, come la Giordania, mentre Gaza andrebbe smantellata. Sul piano regionale, l’ampiezza e la preparazione dell’attacco dimostrano la connivenza di Stati e servizi segreti; la dimensione della guerra è sistemica e organizzata, e l’ignoranza dei servizi occidentali non è casuale ma derivata da disinformazioni, rivalità interne e limiti operativi. Martinet estende la sua analisi al piano civile e sociale europeo, osservando la crescita demografica, la radicalizzazione, l’infiltrazione ideologica nelle istituzioni e la formazione di un narco-jihad che intreccia traffico, violenza e martirio ideologico. Per lui, la sopravvivenza di Israele non è solo una questione militare, ma un prerequisito per la stabilità occidentale: la guerra non è solo locale ma civico-culturale, perché l’islamismo si insinua nelle norme sociali e nella vita pubblica, e la mancata comprensione di questa dinamica produce rischi futuri. La memoria operativa e storica accompagna ogni osservazione: le esperienze in Libano, le crisi passate come l’11 settembre, le forniture e la formazione ai gruppi palestinesi mostrano come il terrorismo e la politica internazionale siano intrecciati, e come la Francia stessa abbia contribuito, in modo diretto o involontario, a influenzare il corso degli attentati. Martinet insiste: il conflitto non è ideologico ma strutturale, e l’attenzione agli equilibri locali e globali è indispensabile per comprendere il rischio e agire con coerenza. Ogni episodio – dall’uso dei bambini in operazioni armate a Gaza, alle omissioni dei servizi occidentali, alla gestione della minoranza musulmana in Europa – non è isolato ma parte di un tessuto coerente di dinamiche militari, geopolitiche e civili. Ignorare questa interconnessione significa sottovalutare la posta in gioco, accumulare rischi futuri e compromettere la capacità di difendere stabilità e civiltà. Comprendere il conflitto – spiega – significa riconoscere le responsabilità degli attori statali e non statali e agire con lucidità e coerenza senza illusioni né compromessi simbolici, perché ciò che avviene in Israele è indice di ciò che l’Occidente rischia se non sa leggere e affrontare la complessità della guerra contemporanea.