MUSICA – I silenzi tra dodici note e i figli di Schönberg

Una sera presso il campo di internamento civile canadese Camp 42 di Sherbrooke, in Québec, i pianisti ebrei tedeschi Helmut Blüme e John Newmark (già internati nel Regno Unito in quanto muniti di passaporto tedesco e in seguito trasferiti in Canada) stavano ascoltando nella baracca della radio con altri internati il pianista ebreo polacco Arthur Rubinstein che suonava il Concerto per pianoforte e orchestra n.5 ‘Imperatore’ di L. van Beethoven alla Carnegie Hall; improvvisamente, sulle sublimi note del secondo movimento del concerto, un ignaro internato irruppe nella baracca urlando: «I giapponesi hanno bombardato Pearl Harbor! ora gli americani entreranno in guerra!».
In effetti quella era la sera di domenica 7 dicembre 1941, Pearl Harbor…la guerra stava cambiando.
John Newmark zittì l’urlatore precipitato nella baracca e a bassa voce sussurrò: «Silenzio, per favore. La guerra durerà a lungo ma Rubinstein è anziano, chissà per quanto ancora potremo ascoltarlo».
In realtà Rubinstein all’epoca aveva 54 anni, in senso stretto non era anziano anche se all’epoca la percezione dell’età era ben diversa da quella attuale; ma su tutto il resto John Newmark aveva perfettamente ragione, la guerra sarebbe durata ancora per altri quattro anni e, soprattutto, quando si fa musica è cosa buona che il mondo nella sua quotidianità faccia silenzio.
L’ascesa al potere del nazionalsocialismo agli inizi del 1933 coincise con la disgregazione della grande scuola dodecafonica, dato che nel maggio del medesimo anno l’ebreo austriaco Arnold Schönberg (nella foto), titolare della prestigiosa cattedra di composizione presso l’Accademia Prussiana delle Arti di Berlino, rassegnò le dimissioni ed emigrò prima a Parigi e infine negli Stati Uniti; fu un’esperienza traumatica non solo per la cerchia di studenti di Schönberg ma per lo sviluppo del linguaggio musicale europeo troncato nel momento più energico della sua crescita nel XX secolo.
Da Berlino passavano tutti i linguaggi musicali possibili e immaginabili, dal cervello musicale di Berlino si sarebbero dipanate le future piattaforme costruttive della composizione musicale, il profeta della musica del ‘900 Ferruccio Busoni insegnava all’Accademia Prussiana delle Arti di Berlino (Schönberg gli subentrò alla morte); un linguaggio musicale può finire per tante ragioni ma ciò che accadde nel 1933 con l’emigrazione di Schönberg fu qualcosa di molto più profondo e drammatico.
Fu come aver lasciato un transatlantico che navigava nell’oceano senza timoniere e la colpa non fu del timoniere ma dell’ufficiale di coperta che marciava a passo d’oca; non fu già il discepolato di Schönberg a rimanere senza guida (la maggior parte di essi aveva già sviluppato percorsi linguistici autonomi) ma la musica del Novecento poiché, come affermò il pianista ebreo austriaco Karl Steiner (deportato a Dachau e rifugiato a Shanghai), senza Hitler e Stalin la dodecafonia sarebbe stata la matricedel linguaggio musicale contemporaneo e avrebbe conosciuto miglior vita e sviluppo.
Dal punto di vista strettamente musicale, questa fu disgraziatamente una vittoria del nazionalsocialismo ossia aver annientato uno dei più agguerriti nemici dell’estetica di regime quale la dodecafonia, annichilito un linguaggio architettonicamente imbattibile, strutturalmente all’avanguardia e concettualmente radicato nella grande tradizione contrappuntistica e formale tedesca; il nazionalsocialismo non temeva le forme, non paventava i contenitori quale la sinfonia o la sonata, piuttosto temeva il linguaggio dodecafonico e i codici rivoluzionari che esso conteneva.
La letteratura musicale concentrazionaria comincia che è già orfana di Schönberg dato che il lager di Dachau apre il 22 marzo 1933 ossia due giorni dopo che Schönberg rassegnò le dimissioni dall’Accademia Prussiana delle Arti di Berlino decidendo che fosse ora di cambiare aria; la nutrita schiera ebraica della scuola di Schönberg da Hanns Eisler (padre ebreo) ad Adolf Weiss, Erich Zeisl, Max Deutsch, Edward Steuermann, Jozef Koffler e altri si trovarono dinanzi a più opzioni ossia emigrare, rimpatriare, inventare nuovi linguaggi in sintonia con i dettami della Reichsmusikkammer.
L’emigrazione salvò i musicisti, le loro opere e i loro linguaggi mentre la deportazione mise i compositori dinanzi all’esistenza, a un non-quesito; una reale risposta la darà il lager stesso nel quale la forma musicale diventò sostanza, strutture e contenuti si mescolarono, sonate e studi si rimodularono nelle proprie colonne portanti, il cemento diventò pilone e muro maestro di sinfonie e opere teatrali, la malta dei mattoni formò un tutt’uno con le capriate lignee di un poema sinfonico.
In cattività il compositore perdeva la libertà dei giorni, dei mesi e degli anni acquisendo in cambio la libertà del pensiero, quella perenne; certo, a caro prezzo e senza che fosse stato interpellato ma la censura del lager era troppo occupata a controllare materiali epistolari e testi letterari per accorgersi se una partitura fosse scritta in un linguaggio più o meno ostile all’estetica nazionalsocialista.
Viktor Ullmann, pur avendo lasciato alle spalle la propria esperienza dodecafonica, recuperò in retrospettiva il pensiero dodecafonico nelle sue Klaviersonaten a Theresienstadt, esattamente dove Gideon Klein, che non fu un discepolo di Schönberg, scrisse la Sonata per pianoforte su una serie dodecafonica; nel campo francese di Saïda, in Algeria, il prigioniero di guerra italiano Berto Boccosi (uno dei più grandi compositori italiani del Novecento, caduto nell’oblio) scrisse il suo monumentale Diario di prigionia per pianoforte in dodici pezzi che rimodulano ritmicamente la stessa serie dodecafonica.
Prima che fosse internato nel 1944 presso l’ex ospedale psichiatrico di Obrawalde-Meseritz in preda ad attacchi di schizofrenia (i programmi eutanasici del Reich continuarono indisturbati sino al gennaio 1945), Norbert von Hannenheim concepì difficili partiture che contemplavano quattro serie dodecafoniche sviluppate contemporaneamente; nel campo di internamento di Tatura (Victoria, Australia) il giovane Felix Werder stese complesse partiture quali Off and Running per clarinetto e orchestra e Psalm 127 op.32 nelle quali il linguaggio dodecafonico si ristrutturava in frammenti e tropi per i quali in Occidente occorrerà attendere il 1961 quando Pierre Boulez pubblicò la prima parte della Sonata n.3.
Tutto questo è figlio di Arnold Schönberg, per tutta una serie di ragioni storiche e musicologiche il pensiero dodecafonico si ricrea e si sviluppò in modo esponenziale nei campi di concentramento.
Nella sconfitta mondiale del genere umano, il campo (di concentramento, internamento, prigionia militare, ecc.) è stato a suo modo l’apoteosi della dodecafonia, la via di fuga di un pensiero musicale abortito dalla Storia nel 1933 e rientrato dalla finestra della musica concentrazionaria; oggettivamente, Schönberg non avrebbe mai immaginato di avere così tanti adepti.La musica è un complesso meccanismo multidimensionale di autodifesa. Grazie alla musica prodotta nei campi abbiamo protetto ben più della nostra cultura e arte; abbiamo salvaguardato la civiltà.
Quando Mozart affermava che per musica non si intende le note ma il silenzio che passa tra una nota e l’altra, pensava esattamente ciò che John Newmark sussurrò all’urlatore di Sherbrooke la sera di Pearl Harbor; i silenzi che cadenzavano le parole di Torà gocciolanti dalle labbra del Rebbe di Lubavitch (nella foto), di Vittorio Gassman mentre recitava l’Inferno di Dante, del 3° movimento della Sonata D960 di Schubert suonata da Aldo Ciccolini (a Pescara il pubblico nel teatro smise di respirare, ero presente) squarciano ancora microcosmi, redimono sofferenze, offrono il Bello.
Come disse un sopravvissuto ad Auschwitz, «quando aiuti qualcuno a vivere, vivi anche tu»; senza volerlo, questa musica ci sta regalando millenni di esistenza addizionale.
Francesco Lotoro