ANALISI – Daniel Neumann: «Dall’ebreo a Israele, così muta l’antisemitismo»

Non servono più Protocolli dei Savi di Sion o accuse di avvelenare i pozzi. Oggi basta un hashtag, un video virale, uno slogan gridato in una piazza europea. Ma il meccanismo, denuncia Daniel Neumann, giurista e presidente dell’Associazione regionale delle comunità ebraiche dell’Assia, «è lo stesso da secoli: creare una menzogna, ripeterla, renderla credibile e usarla come arma politica».

«La storia dell’antisemitismo è essenzialmente una storia di menzogne», scrive Neumann in una riflessione per la Jüdische Allgemeine. Una storia, prosegue il giurista, che ora ha avuto una mutazione, considerata accettabile socialmente ma altrettanto pericolosa: si è passati dall’odio per il singolo ebreo a quello per Israele identificato “ebreo collettivo”. «Oggi la strategia della demonizzazione è rivolta principalmente contro lo stato ebraico. E ancora una volta funziona: emarginazione, delegittimazione, minacce di violenza. Non nonostante, ma proprio a causa della massiccia disinformazione». Tra le accuse più martellanti, quella di apartheid. Neumann non la definisce solo falsa, ma anche offensiva per chi ha davvero vissuto l’apartheid sudafricano: «In Israele non esiste una segregazione razziale sancita dalla legge. Gli arabi israeliani godono di pieni diritti civili. Parlare di apartheid significa piegare la verità a scopi ideologici». E sottolinea: «Chi continua a usare il termine apartheid non persegue la verità, ma altri obiettivi: delegittimazione e demonizzazione».

Neumann non idealizza Israele. «Certo che esistono razzismo e discriminazione. Israele non è perfetto». Ma questo vale per ogni democrazia imperfetta, e non giustifica il ricorso a categorie storiche estreme. Paradossalmente, fa notare, «proprio nei territori controllati dall’Autorità palestinese e da Hamas si trovano condizioni che ricordano davvero l’apartheid: nei confronti degli ebrei. Nessun ebreo può vivere lì. Zero, nada, niente». Più grave ancora, prosegue il giurista, è l’accusa di genocidio: «Tutti i fatti la contraddicono». Israele sta affrontando «un’organizzazione terroristica che il 7 ottobre ha compiuto un massacro senza precedenti di civili», e lo fa, scrive l’autore, con operazioni mirate, avvisi umanitari, evacuazioni mediche, rischi enormi per i propri soldati. «Se Israele avesse davvero voluto commettere un genocidio, i palestinesi di Gaza sarebbero già storia da tempo».

Ma la propaganda non si ferma. La narrativa della carestia è un altro esempio: «Anche qui, propaganda politica, manipolazione e doppi standard determinano l’immagine di Israele come responsabile di una brutale carestia. È di fatto falso, moralmente riprovevole e rappresenta un drastico allontanamento dal principio di causalità». Poi, la menzogna più velenosa: «Israele uccide deliberatamente bambini». Una nuova veste per l’antico mito del rituale omicida: «Una bugia pura con intenzioni omicide. Diffusa per provocare disgusto e incitare all’odio». E funziona, avverte Neumann, perché «fa leva sulle emozioni» e su una cultura impregnata da secoli di pregiudizi.

Il risultato? Attacchi fisici, incendi dolosi, cori che invocano la morte delle Forze di difesa israeliane. «Ma è proprio questo esercito che garantisce la sopravvivenza dello stato ebraico. La sua fine significherebbe la fine di Israele». Perché, si chiede l’autore, queste menzogne attecchiscono? «Perché trasmettono messaggi semplici. Perché offrono una superficie di proiezione collaudata. Perché rendono legittimo combattere Israele, abolirlo, dissolverlo. Per il bene di tutti. Per il bene del mondo intero». E alla fine l’obiettivo non è solo Israele. «Perché l’odio non scompare quando ha finito con gli ebrei. Cerca solo un altro obiettivo». È il segnale che qualcosa di più profondo è in gioco: «L’antisemitismo è un test per la salute morale della società nel suo complesso. E al momento non se la passa troppo bene». Per questo, conclude Neumann, non si può restare in silenzio. «A George Orwell è attribuita la frase: “In un’epoca di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Quel momento è arrivato da tempo. E la verità ha bisogno di difensori. Di combattenti. Di rivoluzionari».