GRAN SASSO – Montagna e salvezza, il CAI ripristini il binomio

La montagna non è mai neutrale: per gli ebrei italiani è stata rifugio e salvezza, spazio di prova morale, luogo in cui sperimentare libertà e responsabilità, orizzonte che misura la storia individuale e collettiva. In Piemonte, in particolare, le valli nascosero vite in fuga, i crinali accolsero brigate partigiane in cui gli ebrei furono protagonisti, intrecciando montagna e Resistenza, coraggio e sopravvivenza. Qui la pietra e il cielo non sono solo scenari, ma strumenti di formazione dell’identità. Il Club Alpino Italiano non fu immune dal fascismo. Nel 1938, dopo l’emanazione delle leggi razziali, il CAI procedette con espulsioni sistematiche dei soci ebrei: tessere ritirate, riconoscimenti cancellati, legami di cordata recisi per decreto. Nomi come Franco Modigliani, Nella Mortara, Guido Castelnuovo, Emilio Segrè, Bruno Zevi o Giovanni Enriquez furono esclusi da un’esperienza che avevano contribuito a costruire. Dopo la guerra, la ferita rimase sottotraccia: pochi gesti formali di ricomposizione, silenzi prolungati, rientri “naturali” senza riconoscimento pubblico. Solo negli ultimi anni il CAI ha cercato una forma di riparazione: consegna di tessere “alla memoria” agli eredi dei soci espulsi, incontri con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, pubblicazioni interne, convegni e mostre di sezione. Un percorso di autocritica che ammette la responsabilità istituzionale e tenta di restituire dignità a chi era stato cancellato. Il recente libro di Pietro Lacasella sul giovane Primo Levi mostra come l’esperienza alpina abbia costituito Levi uno spazio di formazione etica e intellettuale. La montagna, scrive Lacasella, «era il luogo in cui esercitare il controllo di sé, misurare la propria fatica, ritrovare il senso del limite e della responsabilità». Non sport fine a se stesso, dunque, ma scuola morale, anticamera di una Resistenza che è prima di tutto capacità di discernere, di capire e di scegliere. Allo stesso modo, la mostra tedesca Hast du meine Alpen gesehen? – Eine jüdische Beziehungsgeschichte, (ossia: Hai visto le mie Alpi? – Una storia d’amore ebraica) concepita congiuntamente dal Museo Ebraico di Hohenems e dal Museo Ebraico di Vienna, in collaborazione con il Club Alpino Austriaco e Club Alpino Tedesco, racconta come alpinisti, artisti, medici e intellettuali ebrei, prevalentemente di lingua tedesca, abbiano intrecciato le loro vite con la montagna: essa diventa esperienza estetica, luogo di desiderio e insieme specchio delle contraddizioni di una società che escludeva chi aveva sangue ebraico. Tra i protagonisti meno noti, ma emblematici, Isacco Levi operò nelle valli piemontesi per collegamenti partigiani, mentre Raffaele Jona facilitò soccorsi e passaggi sicuri, dimostrando come la montagna possa essere strumento concreto di solidarietà, libertà e salvezza. Un contesto che ci porta a un presente che stride: nell’estate 2025, una via tracciata sul Paretone del Corno Grande del Gran Sasso è stata nominata “Dal fiume al mare: dedicata a tutti i palestinesi che lottano contro i sionisti”. Il gesto, pubblicato su guide e relazioni tecniche, ha generato polemiche immediate. Il Club Alpino Accademico Italiano ha chiesto la modifica del nome; il CAI nazionale ha sottolineato la libertà degli apritori, oscillando tra tutela della libertà di denominazione e richiamo alla prudenza. La via è rimasta così intitolata, mentre il CAAI ha escluso la pubblicazione nell’annuario. Il problema non è ovviamente solo retorico: l’espressione “dal fiume al mare” ha un significato politico preciso che evoca invoca la cancellazione dello Stato di Israele. In un’associazione che ha appena percorso un processo di autocritica rispetto alle proprie colpe storiche, il silenzio o la giustificazione tecnica assumono un peso etico enorme. Il nome inciso sulla roccia non è neutro: è gesto pubblico e memoria scritta. Dal punto di vista ebraico, la montagna conserva un doppio registro: salvezza e rischio, rifugio e responsabilità e la vicenda contemporanea del Gran Sasso mostra come questi due registri possano entrare in conflitto quando la memoria istituzionale, che ha finalmente riconosciuto le ingiustizie del passato, si trova di fronte a una decisione che implica la legittimazione di un’ideologia politica contraria alla propria etica. Le polemiche si sono amplificate anche sui social, tra accuse di censura e di eccessiva politicizzazione. Il caso diventa allora una prova di coerenza: il CAI ha riconosciuto l’ingiustizia passata; può ora misurarsi con la coerenza delle scelte contemporanee? Ogni nome, ogni dedica, ogni segnale pubblico diventa metro per valutare la serietà di un percorso che non può limitarsi a tessere simboliche e convegni. La montagna, in particolare quella piemontese dove l’ebraismo partecipò a reti di soccorso e alla Resistenza nella regione che oggi ospita il Museo Nazionale della Montagna, non tollera superficialità: chiede che la memoria sia viva, che le istituzioni leggano il presente con la stessa attenzione con cui hanno finalmente letto il passato. La via del Gran Sasso è più di una via alpinistica; è un indicatore del rischio che l’impegno etico si perda, che la memoria diventi rituale e che la montagna torni a essere luogo di controversia invece che di formazione, rifugio e responsabilità.
Ada Treves