CINEMA – La vita, l’ossigeno, la contestazione

Erano otto i film israeliani in concorso al Jerusalem Film Festival, che si è svolto a Gerusalemme dal 16 al 26 luglio. L’evento è stato confermato solo dopo la fine del conflitto con l’Iran: «Nonostante la guerra, il festival vuole essere un faro culturale che ci ricordi il potere dell’arte di guarire e infondere speranza», hanno spiegato i curatori.
Oltre a Dead Language, di Mihal Brezis e Oded Binnun, recensito sul numero di luglio, Pagine Ebraiche ha visto in anteprima due film della sezione riservata ai lungometraggi nazionali: Oxygen (Chamzan) di Netalie Braun e The Sea (HaYam) di Shai Carmeli Pollak. Entrambi sono stati premiati: il primo ha vinto come miglior film israeliano, l’altro ha ricevuto una menzione d’onore.
Oxygen esplora la complessa dinamica familiare di Anat (Dana Ivgy, Next to her), una donna che si destreggia tra due figure maschili. Da un lato c’è suo padre Yaki (Marek Rozenbaum), un eroe di guerra che soffre di disturbo da stress post-traumatico. Dall’altro c’è il figlio Ido (Ben Sultan, Mishmar HaGvul), un giovane che sta per essere congedato dal servizio militare e che mantiene con la madre single un legame quasi simbiotico.
Anat aspetta con ansia il viaggio in India programmato con Ido. Lo hanno minuziosamente organizzato insieme e lei protesta quando pensa che i superiori gli abbiano ingiustamente prolungato la leva. Si reca alla base, entrando senza autorizzazione. Sfida l’autorità ponendosi di fronte a un carrarmato dal quale proviene una voce senza volto che l’invita a lasciare il campo. Scopre, però, che il figlio, dopo il rapimento di un commilitone, si è offerto volontario per rimanere in servizio e partecipare alla nuova operazione.
La madre ricorre allora a un atto estremo, senza considerare il libero arbitrio di Ido. Un gesto che è meglio non raccontare, per non svelare un finale dal significato più simbolico che reale e che racchiude tutto il senso del film: l’amore materno che mette in dubbio il mito, consolidato e radicato nella società israeliana, del soldato-eroe invincibile, a lungo contrapposto allo stereotipo del debole ebreo della diaspora, storicamente destinato a soccombere. Oxygen non è il primo film che solleva la discussione sul servizio militare come valore nazionale: altri come Paratroopers di Judd Ne’eman, Late Summer Blues di Renen Schorr, Waltz with Bashir di Ari Folman, Lebanon di Samuel Maoz lo hanno fatto dopo la Guerra del Kippur, l’Intifada, le diverse campagne in Libano.
«Nel 2014 era in corso un’altra guerra a Gaza, l’operazione Protective Edge. Mio figlio aveva meno di sei anni quando il fratello di uno dei suoi amici è morto ucciso in combattimento», racconta Netalie Braun a Pagine Ebraiche per spiegare la genesi del film. «È stata una tragedia che ci ha toccato molto da vicino, la prima volta che mio figlio si è confrontato con l’idea del servizio militare e il rischio di morire», prosegue. «Quando mi ha visto così turbata mi ha detto: “Non preoccuparti, mamma! Io corro molto veloce e saprò correre più veloce dei proiettili”. Mi ha colpito molto. Mi domando: si può chiedere a un genitore di cedere un figlio? Di essere disposto a sacrificarlo, come nella storia di Abramo e Isacco?». La regista si rende conto di quanto il tema sia scottante. Ci racconta come il film fosse pronto da più di un anno e come sia stata a lungo in dubbio sull’opportunità di farlo uscire durante una guerra: «Abbiamo aspettato, sperando che il conflitto terminasse, ma purtroppo non è stato così. E alla fine, il film… eccolo qui». Ma come reagirà il pubblico israeliano? Sarà pronto a mettere in discussione il mito, a empatizzare con la madre? Oppure considererà come disfattismo la battaglia per salvaguardare Ido dal rischio di morire e dal trauma della guerra?
Netalie Braun risponde usando toni e termini forti, specchio della polarizzazione della società israeliana: «Dopo la lunga gestazione del film, sono molto curiosa di vedere come sarà accolto», commenta la regista. «Spero che possa aiutare a rifiutare la situazione attuale. Credo che oggi, rispetto a qualche anno fa, sia più probabile che gli israeliani riescano ad ascoltare il dissenso. Siamo depressi e frustrati e spero il pubblico sia più disponibile a percepire la voce della resistenza. Ma so che viviamo in una società fanatica e sono certa che saranno molti quelli a cui il film non piacerà».
Oxygen è ben girato e l’interpretazione di Dana Ivgy, figlia del noto Moshe Ivgy (Munich e una serie lunghissima di film israeliani) è solida. Interessante anche l’interpretazione di Marek Rozenbaum, una colonna del cinema israeliano, regista, attore ma anche produttore di 25 film israeliani e 40 documentari. Il lungometraggio è strettamente legato alla poesia Oxygen, della poetessa israeliana Dahlia Ravikovitch, recitata nel finale del film.
The Sea, l’altro lungometraggio, è tutto imperniato sulla storia di due abitanti arabi di Ramallah. Khaled (Muhammad Gazawi) ha dodici anni e quando la sua classe va in gita al mare, lui viene fermato al checkpoint perché non ha il permesso in regola e rimane con la curiosità di vedere il mare che non ha mai visto. Per farlo, decide di sgattaiolare oltre i controlli. Il padre, Ribhi (Khalifa Natour, Fauda, Tikkun), che lavora clandestinamente in Israele come manovale, deve cercarlo correndo il rischio di essere arrestato.
Sono ormai molti anni che il cinema israeliano rappresenta l’altro in modo complesso e articolato. E anche qui, il film adotta il punto di vista dei due protagonisti e il loro incontro con quella che considerano una società estranea, pericolosa e poco comprensibile, dalla quale sono esclusi. Una separazione evidenziata dai problemi linguistici del ragazzino: Khaled non parla ebraico e non sa come comunicare con le persone che incontra. Non tutti i personaggi israeliani sono ostili, ma spesso emergono una diffidenza reciproca e una distanza enorme fra mondi molto diversi.
Simone Tedeschi