CINEMA – Quando il West parlava yiddish

Sullo schermo, l’ebreo americano vive a New York. È intellettuale, nevrotico, problematico. Parla troppo, in fretta e spesso con lo psicanalista. Woody Allen con un tocco di Philip Roth. Per quanto consolidata nell’immaginario collettivo, questa però è solo una parte della storia. L’altra, molto meno raccontata, parla degli ebrei nell’epopea del West e del loro ruolo nei film western, uno dei pilastri della tradizione di Hollywood che negli ultimi anni vive un’inaspettata rinascita sul piccolo schermo.
Un libro appena uscito negli Stati Uniti, Chai Noon: Jews and the Cinematic Wild West (University of Wisconsin Press, 264 pp.) di Jonathan L. Friedmann, esplora questo versante meno conosciuto. Il gioco di parole non è casuale: “chai” in ebraico significa “vita” e l’assonanza con High Noon, il western che in italiano diventa Mezzogiorno di fuoco (1952), rivela l’intreccio culturale che l’autore dipana in queste pagine. Da Scusi, dov’è il West? (1979) a Bonanza, fino a Fievel sbarca in America di Steven Spielberg, Friedmann rivela la centralità degli ebrei in un genere parte integrante della mitologia americana.
I personaggi ebrei sono rari, nota l’autore. Fra i più celebri, il malinconico venditore ambulante del cortometraggio Yiddisher Cowboy (1909) che sogna il Far West, e nel 1912, quando il corto diventa un film, realizza quel sogno stabilendosi in Wyoming. Il tema torna in Scusi, dov’è il West? in cui Gene Wilder interpreta un rabbino chassid polacco in viaggio da New York a San Francisco. Ad accompagnarlo, un prestante cowboy interpretato da un giovane Harrison Ford.
Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) di Mel Brooks rilegge invece le regole del genere in una satira per i tempi sovversiva. Nel film, Brooks diventa il grande Capo indiano ebreo e in una girandola di equivoci e battute rimescola gli stereotipi su cui si fonda il western – la visione di una terra vergine da conquistare dove i buoni trionfano, la civiltà avanza e i malvagi sono ridotti alla ragione.
Se i personaggi ebrei scarseggiano, sono numerosi i produttori, registi, sceneggiatori che contribuiscono a plasmare la percezione cinematografica del sudovest americano. Il primo lungometraggio di Hollywood, The Squaw Man (1914), è prodotto dai futuri tycoon Jesse L. Laski e Samuel Goldwyn. Mezzogiorno di fuoco, diretto da Fred Zinnemann, con la vicenda dell’eroe abbandonato dalla comunità è il riflesso su pellicola sia della persecuzione maccartista sia dei temi ebraici del coraggio e della responsabilità individuale. L’autore della sceneggiatura, Carl Foreman, intellettuale ebreo finito nella lista nera di Hollywood per comunismo, aveva vissuto quella persecuzione sulla sua pelle.
Il mito del cowboy, scrive Friedmann, esercita un fascino irresistibile sulla Hollywood ebraica. Nell’epica del West si riflettono i valori della migrazione ebraica: la determinazione a spingersi in terre sconosciute e rifarsi una vita. Non solo. Per quanto sia un capitolo meno conosciuto, il West è parte integrante dell’esperienza ebraica negli Stati Uniti. È una migrazione diversa da quella verso New York, come spiega ancora l’autore di Chai Noon in un’intervista al Forward. «Dal 1820 alla metà dell’Ottocento si tratta soprattutto di ebrei dell’Europa centrale, provenienti da quella che sarebbe diventata la Germania, da parti della Francia e così via». Sono «ebrei più acculturati, più flessibili nel preservare le tradizioni del passato e, in molti casi, già poco osservanti prima ancora di emigrare. Per questo si integrarono molto bene». Entro il 1912, si stima, oltre 100 mila ebrei vivono nel “selvaggio” West. Fra gli esempi di maggior successo, basti citare Levi Strauss, artefice dei celebri jeans.
L’epica del West tramonta sul grande schermo a metà Novecento. Sono gli anni della protesta, della guerra in Vietnam e gli scontri fra buoni e cattivi non intercettano più i gusti del pubblico. Negli anni Sessanta e Settanta, il genere trova nuova linfa in Italia con Sergio Leone e lo “spaghetti western”: la narrativa inclina al pessimismo, gli eroi sono ambigui e l’estetica folgorante. Intanto in America Uomini e cobra (1970) di Joseph Mankiewicz, con Kirk Douglas, sovverte il mito dello sceriffo invincibile. Nel 2010 Il grinta dei fratelli Coen decostruisce ulteriormente il tema. A quel punto il genere è però avviato a un declino che sembra definitivo. La sua rinascita recente – da Yellowstone a Godless ad American Primeval – segna però un deciso ritorno alle origini. È una mitologia di buoni e cattivi che ignora le sfumature che l’esperienza ebraica aveva portato nel genere. Il West, almeno sullo schermo, torna a essere territorio esclusivo dei cowboy.
Daniela Gross