CINEMA – Il lato ebraico di Robert Redford

Robert Redford non era ebreo ma il suo cinema ha incrociato più volte storie, volti e sensibilità ebraiche a partire da The Way We Were, forse il suo film più iconico, accanto a Barbra Streisand. Lei, figlia di Brooklyn e delle tensioni politiche del Novecento; lui, incarnazione della spensieratezza americana. La loro storia d’amore è anche la rappresentazione di due identità che non riescono a convivere, un contrasto che parla di assimilazione e distanza culturale. Lo stesso vale per All the President’s Men: Redford nei panni di Bob Woodward, accanto al Carl Bernstein di Dustin Hoffman. La ricerca della verità sullo scandalo Watergate assume quasi i tratti di un’etica ebraica della responsabilità: scavare, non lasciar cadere nell’oblio, rendere conto alla memoria collettiva. Ancora più esplicito è Quiz Show, diretto da Redford, che racconta di come il privilegio e la falsificazione abbiano escluso un concorrente ebreo dalla ribalta televisiva. Una storia di ingiustizia che diventa riflessione sulla discriminazione sommersa e sulle forme sottili di esclusione. Anche fuori dallo schermo, osserva il Forward, Redford ha dato spazio a voci marginali. Con il Sundance Institute ha costruito un luogo di indipendenza, dove storie lontane dal mainstream trovavano ascolto. Qualcosa che richiama la tradizione ebraica: il rispetto per la minoranza, l’idea che le differenze meritino di essere custodite e portate alla luce. Barbra Streisand, ricordandolo, ha detto: «Eravamo così diversi in superficie… ma dentro eravamo uguali: timidi, sensibili, innamorati del mistero delle relazioni». È forse questo il punto: Redford ha incarnato l’America “normativa”, ma nei suoi film quella normalità si è sempre intrecciata con altre identità, ebraiche in particolare, che la mettevano in discussione. Non è un’eredità esplicitamente ebraica, ma un dialogo costante: la prova che nel cinema, come nella vita, l’appartenenza si gioca più nell’incontro che nelle etichette.