L’ANALISI – Qatar, un doppio gioco senza fine

Mentre l’Occidente si preoccupa per l’assassinio mirato, a Doha, di alcuni dirigenti di Hamas, permane una inquietante dissonanza: viene condannata l’azione di Israele, si discute della necessità di far rispettare diritto internazionale, e il ruolo Doha viene celebrato come interlocutore essenziale e come mediatore “neutrale”. Eppure, come ha scritto per il Jewish Chronicle Jonathan Spyer – analista di Medio Oriente e giornalista, direttore di ricerca al Middle East Forum, autore di saggi su conflitti e geopolitica regionale – chi vuole vedere sa che il Qatar da tempo gioca una partita ben diversa: coltiva Hamas, finanzia la Fratellanza Musulmana, ha il doppio ruolo di chi accende fuochi e allo stesso tempo cerca di estinguere l’incendio, una posizione lucidamente cinica, per nulla ingenua. Scrive Spyer che la retorica occidentale negli ultimi decenni ha costruito una narrativa del piccolo emirato “ponte tra culture” proprio mentre il medesimo emirato offriva rifugio sicuro, risorse finanziarie e spazio politico (e mediatico) a tante organizzazioni che propagano ideologie radicali, da Al Qaeda a Hezbollah passando per il ramo palestinese del movimento islamista. Il Qatar con discrezione mette a disposizione tutto ciò che serve: fondi, ventilata legittimità e visibilità internazionale. La stampa, i governi e le cancellerie, continuano a trattarlo come interlocutore indispensabile per la pace in Medio Oriente senza domandarsi con quanta serietà abbia interesse che la pace prosperi piuttosto che il conflitto resti un’opportunità diplomatica. Le reti posa‐cavi delle Ong, i think‐tank ben posizionati nei salotti europei, le università che accettano contributi… tutto diventa possibile grazie a capitali qatarioti. In cambio arrivano una legittimazione dell’influenza islamista, l’ammissibilità sociale della Fratellanza Musulmana e la proliferazione di programmi che non nascondono il loro tono ideologico, talvolta apertamente propagandistico. E siccome il mondo occidentale ha bisogno di ponti, di canali diplomatici, di “moderatori”, si lascia convincere. L’aspetto più paradossale è che mentre si condanna l’azione di Israele – spesso con enfasi sul bisogno di legge, di negoziato, di diritti umani – si dimentica che il consenso occidentale ha contribuito a costruire la capacità del Qatar di operare come ente con peso regionale, come attore che non interviene solo di riflesso. Israele – continua Spyer – è costretto a misurare la realtà del confine e del pericolo e ha deciso che certe regole, in condizioni estreme, non bastano: certe minacce non possono essere né trascurate né tollerate solo perché le opinioni pubbliche occidentali vogliono credere nella moderazione. Si può obiettare che il sostegno qatariota a Hamas ha implicazioni anche nei costi umani molto concreti; che la propaganda trasmessa via Al Jazeera (che accoglie figure come Yusuf al-Qaradawi, non precisamente un moderato pacifista) non sia un accidente ma parte integrante del disegno. L’Occidente, in particolare il Regno Unito, ha riversato su Doha investimenti milionari: quote immobiliari di prestigio, stake in infrastrutture critiche, partecipazioni strategiche che legano il Qatar all’economia, alla politica, ai centri decisionali. E non solo: università, centri islamici, programmi culturali che beneficiano dei fondi qatarioti amplificano una narrativa che può risultare corrosiva, incline a espandere frontiere religiose-ideologiche che molti nelle nostre società preferirebbero restassero al margine. L’Occidente secondo l’autore pare così intrappolato in una commedia: applaude il mediatore, reclama l’adempimento degli obblighi internazionali, deplora le vittime del terrorismo, ma nel frattempo permette che il mediatore stesso alimenti le tensioni che pretende di calmare. La sfida per i governi europei sta nel riconoscere che la legittimità data a Doha non è neutra: è una scommessa. Se il Qatar fosse costretto a scegliere – ossia se l’Occidente imponesse paletti reali e trasparenza – si vedrebbe se davvero Doha desidera essere ponte di pace o preferisce il ruolo ambiguo di chi semina e poi spera nella negoziazione.