7 OTTOBRE – L’archeologia per restituire un nome alle vittime, la mostra a Gerusalemme

Per 47 giorni la famiglia di Shani Gabay ha vissuto nell’incertezza. La venticinquenne era stata vista l’ultima volta ferita, mentre cercava di fuggire dall’attacco di Hamas al festival musicale Supernova, il 7 ottobre 2023. I suoi resti non erano stati ritrovati e i genitori pensavano fosse stata rapita. «Shani è stata considerata dispersa per 47 giorni», ha ricordato sua madre, Michal Gabay, durante la recente inaugurazione della mostra Rising from the Ashes: Archaeology in a National Crisis, ospitata al Jay and Jeanie Schottenstein National Campus for the Archaeology of Israel a Gerusalemme. «Per 47 giorni abbiamo vissuto nell’incertezza: era stata rapita, era stata uccisa?».
La svolta è arrivata grazie a un piccolo oggetto: una collana a forma di luna. È stato il vicedirettore dell’Autorità israeliana per le antichità (IAA), Moshe Ajami, a individuarla tra i resti di un’ambulanza distrutta, dove si erano rifugiate una ventina di persone prima che un razzo la colpisse, uccidendo 18 ragazzi. Gli esami del Dna sulla collana hanno permesso di confermare che Shani era morta in quel luogo. «Sono stati trovati solo alcuni resti di Shani: due denti, una vertebra e un altro osso», ha spiegato la madre. «Grazie a Moshe, che ha trovato la collana, siamo riusciti a chiudere il cerchio e a darle una sepoltura dignitosa nella nostra città, circondata da tutti coloro che l’amavano».
Quella di Shani è una delle storie raccontate nella nuova mostra che per la prima volta porta il pubblico dentro l’esperienza vissuta dagli archeologi israeliani dopo il 7 ottobre. Professionisti abituati a lavorare tra tombe antiche e grotte che si sono ritrovati a setacciare case in macerie e veicoli carbonizzati in cerca di resti di persone scomparse durante la strage di Hamas.
«La differenza è che si sa chi è la persona», ha spiegato ad Haaretz a metà del 2024 un archeologo coinvolto nell’iniziativa. «Ci occupiamo di morte e distruzione in siti antichi e in grotte funerarie, ma lì i morti non hanno volti né nomi. Non è una persona che si vede sui giornali e la cui madre lancia appelli sulla stampa».
Il lavoro è stato molto difficile, ha raccontato al Times Of Israel l’archeologo e fotografo dell’IAA Assaf Peretz, inviato al kibbutz di Be’eri. «All’inizio è stato uno shock totale: l’odore dei corpi bruciati e in decomposizione sembrava aggredirmi, avvolgermi. Mi è sembrato di ricevere un pugno in faccia». Un collega lo ha calmato, ricordandogli di essere a Be’eri in qualità di professionista e di cercare di non farsi coinvolgere: «Siamo addestrati a riconoscere le ossa, anche i frammenti più piccoli, indipendentemente dal loro stato di conservazione, tra le ceneri e i detriti. È esattamente quello che abbiamo fatto», ha spiegato Peretz.
La prima sala della mostra presenta le storie delle 16 persone identificate grazie ai ritrovamenti dell’IAA. Molti altri resti, spesso carbonizzati o ridotti a minuscoli frammenti ossei, non hanno potuto essere riconosciuti perché non era possibile estrarre il Dna, hanno spiegato gli esperti.
In alcuni casi, oltre ai corpi, gli archeologi hanno recuperato effetti personali che hanno restituito memoria e dignità. «In una casa – quasi completamente bruciata – abbiamo trovato circa 15 fotografie nella stanza blindata», ha detto Peretz. «C’erano 15 foto di una vacanza in famiglia. All’esterno, sul prato, abbiamo scoperto alcuni disegni che i nipoti avevano fatto per i nonni. Non ho idea di come quelle foto e quei disegni siano sopravvissuti all’incendio. Ma li abbiamo restituiti alla famiglia. Ci hanno detto che era tutto ciò che era rimasto dei loro genitori e nonni».
La mostra non si limita a presentare reperti e testimonianze, ma ricostruisce il processo di documentazione messo in campo dagli archeologi: milioni di fotografie, ore di video e modelli 3D dei siti devastati. «È nostro dovere, in qualità di Autorità israeliana per i beni culturali, preservare, documentare e garantire la sopravvivenza della memoria degli episodi più difficili della nostra storia, dai quali dobbiamo crescere e imparare. Il popolo ebraico ha sempre saputo rialzarsi dal dolore, anche dopo le distruzioni più gravi», ha sottolineato il direttore dell’IAA, Eli Escusido.
Le aree colpite dall’attacco di Hamas stano gradualmente tornando alla vita, ha ricordato Leora Berry, direttrice del progetto espositivo e «le aree distrutte, come è normale che sia, scompariranno presto sotto i nuovi edifici. Per questo la documentazione è fondamentale, non solo per la ricerca e le indagini, ma anche come testimonianza essenziale contri chi mette in dubbio gli orrori del 7 ottobre».

d.r.