FOTOGRAFIA – A Camera lo sguardo ebraico di una non ebrea

“Camera” il Centro Italiano per la Fotografia di Torino compie dieci anni affermando la costruzione di uno spazio in cui l’immagine diventa memoria, responsabilità, testimonianza. Si sono susseguite mostre dedicate a figure che hanno segnato il Novecento e le cui biografie si sono intrecciate con la storia ebraica del secolo. Non è un caso: la fotografia moderna coincide con l’emancipazione ebraica in Europa, con le migrazioni, con la catastrofe della Shoah e con la necessità di dare forma visiva al trauma e alla ricostruzione. In questo senso Camera, dedicando mostre a Robert Capa e Gerda Taro, a Eve Arnold, ad Alfred Eisenstaedt e a molti altri ancora, da Dorotea Lange a André Kertész, non ha solo celebrato la grande fotografia, ma ha aperto una riflessione sul legame tra sguardo fotografico e condizione ebraica, intesa come esperienza di diaspora, memoria ferita e tensione etica verso la realtà. La mostra che si apre in concomitanza con il decennale, dedicata a Lee Miller e al suo lavoro tra gli anni Trenta e Cinquanta, si inserisce con naturalezza in questo percorso. Miller non era ebrea, e tuttavia la sua vita e la sua opera si muovono all’interno di una costellazione in cui la presenza ebraica è costante: nei compagni di lavoro e di vita, nei sopravvissuti incontrati in Europa, negli amici perseguitati dal nazismo, nei colleghi come quel David Scherman con cui documentò i campi appena liberati. L’ebraismo, per lei fu una prossimità continua che influenzò il suo modo di vedere e raccontare. Quando Miller fotografa Buchenwald o Dachau pone lo spettatore di fronte alla responsabilità di guardare, come se lo sguardo stesso fosse chiamato a rispondere alla voce assente delle vittime. È una tensione che riecheggia profondamente con l’idea ebraica della memoria come dovere collettivo. Camera, nelle sue proposte al pubblico italiano, ha dato voce a una tradizione europea in cui l’ebraismo non è un tema marginale ma una delle chiavi interpretative per comprendere la fotografia moderna. La parabola di Lee Miller dal surrealismo alle immagini di guerra, dal gioco estetico alla consapevolezza etica, riflette il destino stesso del Novecento. L’amicizia e la vicinanza con figure ebraiche, la scelta di non distogliere lo sguardo davanti alla Shoah, la capacità di usare la fotografia come forma di resistenza contro l’oblio, tutto questo rende la sua opera parte di quel filo che unisce la grande fotografia all’ebraismo. Nel decennale di Camera, questa mostra diventa allora più di un omaggio: è una dichiarazione di metodo. La fotografia non può limitarsi a offrire immagini; deve confrontarsi con la memoria e con il trauma, con l’ombra di Auschwitz e con la fragilità della vita. È questo il contributo più profondo che la tradizione ebraica ha portato alla fotografia del secolo scorso: l’idea che ogni immagine, dietro la sua superficie, contenga una domanda morale. E il punto di vista ebraico, implicito o esplicito, si rivela un elemento decisivo per comprendere perché queste immagini continuino a parlarci: ci ricordano che lo sguardo non è mai innocente, e che fotografare significa assumersi la responsabilità di non dimenticare. 

a.t.