GERMANIA – Ofek e la fine dell’empatia

Marina Chernivsky, psicologa e fondatrice a Berlino di un centro per l’educazione critica all’antisemitismo (Ofek), è nata a Leopoli, in Ucraina, ed è cresciuta in Israele.
La Jüdische Allgemeine, in un articolo di Franziska Hein, riporta un suo bilancio: a due anni dagli eventi del 7 ottobre la vita ebraica in Germania è entrata in una nuova fase; non si parla più di emergenza ma di una condizione ormai stabile, segnata da una minaccia che accompagna il quotidiano. «Il potenziale della minaccia è diventato permanente» osserva Chernivsky, e descrive un clima in cui non ci si sente più colpiti soltanto da episodi isolati, ma immersi in un’atmosfera di sospetto e ostilità. Già nei giorni subito successivi all’attacco di Hamas contro Israele, il team di Ofek aveva attivato un “modulo crisi”. L’esperienza accumulata negli anni lasciava intuire che il numero di episodi antiebraici sarebbe cresciuto in fretta e le telefonate ricevute lo hanno confermato. Racconti frequenti non solo di aggressioni o insulti, ma anche sguardi, silenzi, piccoli gesti che accumulandosi segnano la percezione del vivere comune. Il trauma del 7 ottobre, con le sue vittime e i suoi ostaggi, in Germania ha rotto degli equilibri interni. Secondo Chernivsky, «la capacità di immedesimarsi negli ebrei si è esaurita». La memoria della Shoah è stata a lungo trattata come capitolo chiuso, confinato nei musei e nelle cerimonie ufficiali, mentre per chi è ebreo in Germania resta presente, legata all’esperienza del vivere attuale e di fronte alla nuova ondata di ostilità, questa distanza si è fatta più evidente. Molti descrivono una doppia fatica: affrontare il lutto e la paura provocati dagli eventi in Israele e allo stesso tempo far fronte a un contesto sociale in cui l’antisemitismo riemerge in forme dirette e indirette. Non è solo il dovere della memoria a essere messo alla prova, ma la capacità della società di reagire e di non lasciare spazio al vuoto. Le emozioni che circolano sono il segnale di una frattura che attraversa la convivenza, non hanno il valore di uno sfogo terapeutico. Quando si parla oggi di una “normalizzazione” del rischio, spiega Chernivsky, non si intende rassegnazione, si tratta piuttosto di una condizione di presenza continua, di resistenza discreta ma costante, che rende necessario ripensare il modo stesso in cui la vita ebraica si colloca nello spazio pubblico. In questo quadro, l’antisemitismo non appare come episodio occasionale, ma come fenomeno che si alimenta di abitudini, omissioni e silenzi e che rende più difficile immaginare un orizzonte condiviso.