GIUSTIZIA – Teshuvah è riparazione

In Italia la giustizia riparativa è entrata nell’ordinamento nel 2022 con la riforma Cartabia: l’idea è quella di introdurre un nuovo paradigma riparativo che metta l’accento sulla guarigione delle ferite emotive e sulla riconciliazione sottolineando i limiti di quello solamente punitivo che non si occupa delle persone coinvolte nella vicenda criminale. Sullo strumento riparativo, il mondo ebraico può offrire una propria chiave di lettura, attraverso il principio della Teshuvah.
Non è semplicemente “pentimento”, ma un processo codificato nel XII secolo da Maimonide nel trattato Hilkhot Teshuvah della Mishneh Torah. Si tratta di un vero e proprio itinerario spirituale, etico e relazionale. Un percorso che non si esaurisce nel riconoscimento interiore della colpa, ma richiede gesti pubblici e atti riparativi. Si comincia con la confessione del torto compiuto, non rituale, ma individuale e verbalizzata; si prosegue con il risarcimento e, soprattutto, con il mutamento di comportamento: la prova ultima della sincerità del percorso, scrive Maimonide, è resistere alla tentazione di ripetere l’errore anche se si è nuovamente posti nelle stesse circostanze. «La Teshuvah, nella forma codificata da Maimonide, non è solo un atto interiore», spiega a Pagine Ebraiche Davide Assael, che ha portato queste riflessioni anche all’interno del carcere di Opera e in un ciclo di interventi per il programma Uomini e Profeti di Radio3. «La Teshuvah è un processo concreto che comincia dal riconoscimento del torto, prosegue con il tentativo reale di ripararlo, e si compie quando, trovandosi nella stessa situazione, si sceglie di non ripetere l’errore. È lì, nella capacità di agire diversamente, che si misura la sincerità del cambiamento».
Il cuore della Teshuvah non è il perdono, ma la riparazione del legame. Non sempre è possibile risarcire il danno subito da un altro. Non sempre l’altro accetta il confronto. Ma ciò non solleva dalla responsabilità di provare, insistere, esporsi. Secondo Maimonide, continua Assael, «anche quando la vittima rifiuta l’incontro, resta il dovere morale di cercarlo. Il primo passo spetta sempre a chi ha causato la lacerazione».
In questo senso, la Teshuvah si avvicina molto alla logica della giustizia riparativa. Non si tratta di una giustizia alternativa alla pena, ma di una via che riconosce la ferita e prova a sanarla, attraverso l’ascolto, il confronto, la corresponsabilità, sottolinea il filosofo. «È una giustizia che non cancella il conflitto, ma lo attraversa». La giustizia riparativa, aggiunge Claudia Mazzuccato, docente dell’Università Cattolica di Milano, «si occupa dell’irreparabile e delle sue scorie radioattive. Se non curiamo queste scorie, diventano la fonte emotiva di sentimenti feroci e di altre migliaia di conflitti». In questo senso «mentre la restituzione del colpo genera un meccanismo difensivo e potenzialmente autogiustificatorio, la giustizia riparativa guarda avanti, non si chiude in un passato di colpa e negatività, ma apre a un futuro, in cui si può e si deve cambiare», spiega la giurista, che ha portato Assael a collaborare con i detenuti di Opera.
Esempi di questo percorso sono il Sudafrica, dove dopo l’apartheid la Commissione per la verità e la riconciliazione ha fatto emergere l’idea che «se uno fa un torto, questo si espande in tutta la rete relazionale», e il Rwanda, che dopo il genocidio ha attivato forme locali di giustizia partecipata, spesso slegate dai modelli giuridici europei. «Ogni contesto deve trovare la propria lingua per la giustizia riparativa», prosegue Assael. «Non può essere una formula astratta, né un meccanismo replicabile ovunque allo stesso modo». In Italia, uno degli esempi più noti di questo percorso è Agnese Moro, figlia di Aldo Moro. Coinvolta in un cammino di giustizia riparativa con alcuni ex appartenenti alle Brigate Rosse, Agnese Moro ha raccontato più volte quanto fosse inizialmente contraria all’idea stessa dell’incontro. Ma col tempo, ha ammesso: «La mia vita ha ricominciato a scorrere». Per Assael, questo è il punto chiave: «La Teshuvah, come la giustizia riparativa, non serve a rimuovere il dolore, ma a elaborarlo attraverso la parola e l’incontro.
È un modo per uscire dal congelamento emotivo del trauma, dal blocco che spesso ci tiene fermi nella rabbia». Nel mondo ebraico, questa lingua passa anche attraverso il concetto di Riv, il confronto diretto tra le parti, presente nella tradizione profetica. «Non si tratta di una mediazione pacificata», precisa lo studioso, «ma di uno scontro verbale reale, in cui le parti si dicono tutto, anche con durezza. Solo dopo si può eventualmente ricostruire».

Daniel Reichel