Nuovi schemi per la pace

La formula “due popoli due Stati” ha da decenni un grandissimo successo tra i politici del mondo intero, ma la sua applicazione sul territorio è sempre più disastrosa. Einstein diceva: «Follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati differenti». È dunque il caso di esplorare un paio di alternative che sorgono dallo stesso mondo palestinese, e che mirano entrambe a fare sì che gruppi di famiglie e clan concludano accordi con Israele, saltando la mediazione corrotta e artificiale della Autorità palestinese.
Ricordando a tal proposito che quest’ultima non può pretendere di rappresentare i palestinesi, visto che non li fa votare da ormai vent’anni. Non è un caso se alcuni gruppi pronti alla pace vogliano aderire direttamente agli Accordi di Abramo, cosa che Abu Mazen non ha mai richiesto. Ma prima serve una premessa basilare: il panorama geopolitico del Medio Oriente e del Nord Africa presenta un paradosso che merita profonda riflessione. Mentre Stati artificiali, creati dalle potenze occidentali con confini tracciati con il righello sulle mappe, attraversano crisi sistemiche e conflitti interni, alcune realtà politiche della regione mostrano invece stabilità e prosperità durature. Questa dicotomia suggerisce la necessità di ripensare in modo radicale gli approcci alla governance regionale, guardando a modelli che rispettino le specificità culturali e antropologiche del territorio.

I clan come sistemi di governance

Gli Emirati Arabi Uniti rappresentano un caso di studio illuminante. Kuwait, Qatar, Dubai e Abu Dhabi hanno costruito la loro stabilità politica ed economica su fondamenta che potrebbero apparire anacronistiche agli occhi occidentali: il potere delle grandi famiglie tribali. I clan Al Sabah, Al Thani, Al Maktoum e Al Nahyan non sono semplici dinastie, ma incarnano sistemi di governance radicati nella cultura locale che hanno saputo evolversi mantenendo la propria identità. Questi Stati dimostrano che quando il potere politico si basa su strutture sociali organiche consolidate emerge una forma di stabilità che di rado si riscontra nelle costruzioni statali artificiali. Questa esperienza evidenzia un principio fondamentale: l’efficacia delle istituzioni politiche dipende dalla loro capacità di rispecchiare e canalizzare le dinamiche sociali preesistenti, piuttosto che sostituirle con modelli esterni come quello dell’Autorità palestinese.

Costituzione “svizzera”

Dalla Siria allo Yemen, dall’Iraq alla Libia, assistiamo a quella che potremmo definire “la vendetta dell’antropologia sulla storia”. Gli Stati-nazione creati artificialmente dalle potenze coloniali mostrano tutte le loro debolezze strutturali, mentre identità tribali e settarie, a lungo compresse, riemergono con forza dirompente. L’esempio forse migliore è quello del Libano, a cui hanno applicato una Costituzione ricalcata su quella della Svizzera, ma avendo al posto degli svizzeri gruppi di arabi cristiani, sunniti, sciiti, oltre che regimi sanguinari che cercavano di dominarli: vedi per esempio l’influenza di Siria e Iran attraverso il gruppo terrorista libanese di Hezbollah.

Una scuola di tolleranza a Gaza

In questo contesto si inserisce una proposta innovativa per la questione palestinese: l’applicazione del modello emiratino a Hebron, Gerico, Ramallah, Tulkarem, Nablus e Jenin che potrebbero trasformarsi in città-stato gestite dai rispettivi clan storici, creando una confederazione di entità autonome simile agli Emirati Arabi Uniti. Ma veniamo a due casi concreti già emersi dalle cronache, che vanno in questa direzione più rispettosa della realtà sul terreno. Il primo viene da quella parte di Gaza liberata dalla presenza di Hamas. È il caso di Yasser Abu Shabab, comandante delle Forze Popolari, proveniente da una tribù beduina del Sinai storicamente ostile ai Fratelli Musulmani. Con il suo gruppo si è ritagliato un piccolo territorio a Gaza, estromettendo Hamas con le armi, e oggi in quell’area non c’è più la guerra. C’è invece una scuola che insegna la tolleranza verso le altre religioni. Israele tratta con lui, in un modello che potrebbe essere interessante per il futuro. La sua decisione di distribuire gli aiuti alla popolazione in autonomia, sfidando il monopolio di Hamas, dimostra come le lealtà tribali e familiari possano prevalere su quelle ideologiche. Un secondo esempio di possibile riorganizzazione del mondo palestinese è quello dei cinque sceicchi di Hebron capitanati da Wadi’ al-Jaabari, promotore dell’iniziativa che mira a separare la sua città dall’Autorità palestinese per costituire un emirato che aderisca agli Accordi di Abramo e ripudi il terrorismo. Stufo di una leadership inconcludente come quella di Abu Mazen, lo sceicco si pone il problema di andare avanti con pragmatismo, facendo gli interessi della sua gente. La proposta non è stata ben accolta dall’Autorità palestinese, principale indiziata dell’incendio, il giorno dopo, dell’automobile dello sceicco al-Jaabari. Un messaggio in perfetto stile mafioso che mi convince del fatto che la strada indicata dagli sceicchi di Hebron sia quella giusta.

Ascoltare il territorio

È tempo di liberare i palestinesi da leadership terroriste e fallimentari come quelle di Hamas, senza però dimenticare
che anche l’Autorità palestinese ha sempre premiato i terroristi che uccidevano ebrei con la politica del “pay for slay” (“paga chi uccidi”) e diffuso insegnamenti antisemiti nelle proprie scuole. Se aspiriamo a una pace vera nella regione, è tempo di cambiare schema. La sfida è complessa, ma le strade alternative esistono: purché si abbia il coraggio di abbandonare schemi preconcetti e di ascoltare le voci di pace che vengono dal territorio stesso.

Davide Riccardo Romano

(Nell’immagine: mappa delle principali attrazioni degli Emirati Arabi Uniti)