ISRAELE – Gli ostaggi e il racconto di due anni nell’inferno di Gaza

Rom Braslavski sopportava le frustate dei suoi aguzzini ripetendosi che sarebbero finite. Avinatan Or era riuscito a scappare, per poi essere nuovamente catturato e rinchiuso in una piccola gabbia, ammanettato e tenuto in isolamento. Yosef-Haim Ohana per giorni è rimasto in una fossa sotterranea con altri sei prigionieri, senza ossigeno né spazio per muoversi. Sono alcune delle storie che emergono dai racconti delle famiglie degli ostaggi liberati, testimonianze che restituiscono il volto di due anni di inferno a Gaza.
«Rom mi ha detto che lo colpivano con oggetti che non voglio nemmeno nominare», ha raccontato la madre Tami Braslavski. «Sapeva che ogni colpo sarebbe finito, e si ripeteva questo pensiero per resistere».
Il padre di Avinatan, Yaron Or, ha invece descritto l’angoscia dell’isolamento: «Dopo il tentativo di fuga lo hanno messo in una gabbia. Era grande poco più di un materasso, alta un metro e ottanta. Ci stava ammanettato alle sbarre. Ha vissuto così per mesi».
Anche Yosef-Haim ha affrontato momenti che sembravano insostenibili. «Lo hanno buttato in una fossa con altri sei uomini», ha ricordato il padre, il rabbino Avi Ohana. «Non potevano né sedersi né sdraiarsi, l’aria era quasi finita. Ma un giorno è riuscito a captare la mia voce alla radio. Mi ha detto: “Papà, ho capito che eri vivo e che mi aspettavi. È questo che mi ha ridato la vita”».
Storie di sopravvivenza simili a quella di Bar Kuperstein, che durante la prigionia ha subito fame e torture ma ha trovato la forza di aiutare gli altri ostaggi. «Bar ha mani d’oro» ha raccontato la madre Julie a Galei Tsahal. «Durante la prigionia, ha sistemato i fili della corrente, scavato un piccolo canale per avere acqua, perfino un buco per i bisogni. Così si è tenuto occupato ed è rimasto lucido». Per affrontare il dolore ha imparato a rifugiarsi nel sonno: «Mi ha detto: “Ho scelto di dormire. Dormivo ore e ore, così non pensavo alla fame e alle botte”».
Spesso non c’era nulla da mangiare, e quando arrivava un po’ di pane secco lo divideva con i compagni. «Mamma, mi sono abituato a vivere con poco cibo», le ha confidato. Eppure non ha mai perso la speranza: «Sapevo che sarei tornato vivo», le ha detto al momento dell’abbraccio dopo 738 giorni di prigionia. Durante quei due anni si è anche avvicinato alla fede. «Quando è tornato mi ha chiesto una talled (lo scialle usato dagli ebrei in preghiera)», ha raccontato Julie. «Non me l’aspettavo. Diceva che nel buio della prigionia si era aggrappato a Dio, recitava lo Shema Israel, pregava i Salmi che ricordava. Anche questo lo ha salvato».
Al Times of Israel Itai Pessach, vicedirettore generale dello Sheba Medical Center, l’ospedale dove sono in cura alcuni ostaggi liberati, ha spiegato: «Ognuno di loro ha sopportato avversità e orrori indicibili, e quindi la strada verso la guarigione sarà molto lunga. Avranno probabilmente bisogno di settimane, mesi e forse anni per riprendersi, ma finalmente possono tornare a vivere».