MUSICA – Dita Kraus e i cocci di un vaso rotto

Nata presso una famiglia ebraica di Praga nel 1929, Edith Polach detta Dita fu trasferita nel 1942 a Theresienstadt con i genitori e successivamente fu deportata a Birkenau dove suo padre perse la vita. Dita e sua madre furono in seguito assegnate ai lavori forzati in territorio metropolitano tedesco e infine presso il lager di Bergen-Belsen, dove sua madre non sopravvisse.
Dopo la guerra Dita sposò lo scrittore ceco Otto Kraus, nel 1949 entrambi si trasferirono in Israele dove Dita completò gli studi e lavorò come docente universitaria, dopo la morte del marito nel 2000 Dita rimase a Netanya dove si dedicò alla pittura ad acquerello, la sua giovanile passione.
Fu Dita a raggiungermi nel dicembre 2019 con una email, mi aveva visto sulla Cbs nel programma 60 Minutes e voleva conoscermi, incontrarmi e fare dono alla Fondazione ILMC di Barletta di un suo acquerello; le promisi che mi sarei recato subito da lei ma la pandemia fece saltare tutti i piani.
Finalmente la raggiunsi nel luglio 2021 con una troupe della Rai a Netanya, c’erano ancora le prescrizioni anti-Covid e quando provai a entrare a casa sua a viso scoperto Dita, in elegante inglese, fermò me e gli operatori chiedendoci di indossare la mascherina; obbedimmo, ci fece accomodare in una grande stanza dove non potei trattenermi dal farle domande sul periodo da lei trascorso a Theresienstadt (foto in alto) e sul nome che le fu dato da uno scrittore spagnolo, “la libraia di Auschwitz”.
Dita si mostrò abbastanza risentita per quel nomignolo attribuitogli che ingigantiva una piccola attività clandestina da lei tenuta a Birkenau di raccolta libri che distribuiva alle sue compagne; quella manciata di libri non costituiva di certo una biblioteca ma le feci notare che il titolo era appropriato e creare cultura a Birkenau era importante soprattutto se compiuto da una 12enne quale lei era.
Durante l’intervista la pittrice e scrittrice ebrea Dita Kraus si trasformò in un forziere di memorie musicali, mi cantò una dopo l’altra canzoni e filastrocche create a Theresienstadt tra le quali alcuni inediti che non si trovano nella partitura del Brundibár di Hans Krása e una nuova canzoncina di Ilse Weber mai ascoltata sino a quel momento; l’intervista andò per le lunghe e alla fine Dita mi mostrò la stanza dove lei conservava gli acquerelli premurandosi di avvisare i due operatori televisivi – israeliani che lavoravano per la sede Rai di Gerusalemme – di fare attenzione a un vaso colmo di bei fiori in equilibrio su un piedistallo vicino all’ingresso, una pianta alla quale era tanto affezionata.
Neanche il tempo di entrare nella stanza degli acquerelli che udimmo un inequivocabile crash!, nello smontare l’attrezzatura uno dei due operatori urtò inavvertitamente la pianta riducendo il vaso in mille cocci; il gelo scese nella casa e il volto di Dita immediatamente sbiancò.
Non riuscii più a farla sorridere, la lasciammo con un grande dispiacere che ci portammo durante il viaggio di ritorno a Gerusalemme, la rottura di quel vaso aveva spezzato l’incantesimo di quell’incontro che sino a poco prima era andato per il verso giusto; non ebbi il coraggio di scriverle per molti mesi e, nonostante mi fossi ripromesso di tornare a Netanya in uno dei miei viaggi in Israele e portarle un bel vaso pieno di fiori, i tempi sempre contingentati non me lo hanno mai permesso.
Qualche tempo dopo fu inaspettatamente Dita a scrivermi in occasione di un mio concerto a Gerusalemme, concerto al quale lei purtroppo non poté partecipare; era tornata a essere quella che io ricordavo e, in un certo senso, aveva perdonato me e tutta la Rai per quel vaso rotto.
Domenica scorsa ero a Praga ospite del TEDx e proprio a Praga, città natale di Dita, ho appreso della sua scomparsa a Gerusalemme; ho subito rammentato quel vaso di fiori in mille pezzi immaginando Dita nel meraviglioso mondo pieno di immensi giardini che l’aspetta, alle canzoni e filastrocche conservate nel freezer della memoria della ‘bibliotecaria di Auschwitz’ e che mi donò quel giorno a Netanya.
Verso le due di pomeriggio del 6 ottobre 1973 il silenzio del digiuno di Kippur in Israele fu squarciato dalle sirene, le truppe siriane ed egiziane erano riuscite a sfondare sulle alture del Golan e nel deserto del Sinai, giovani e meno giovani correvano ai reparti militari per combattere una delle più difficili guerre dello Stato ebraico; anni fa un caro amico di Bat Yam mi raccontò che intorno alle 14:30 di quel terribile giorno il rabbino della sua sinagoga accese simbolicamente un sigaro a una fiammella del tempio e con infinita tristezza annunciò ai pochi rimasti «Kippur è finito».
«Pikuach nefesh docheh Shabbat», salvare la vita respinge lo Shabbath, dicono i Maestri a indicarci quanto la vita sia sacra al punto da infrangere Shabbath o Kippur; quel giorno stava rischiando di morire Israele, lo Stato ebraico con capitale Gerusalemme, la sua vita era in pericolo e non c’è vita più importante da difendere e proteggere dello Stato di Israele.
Il pensiero ebraico ha fornito a un mondo ingrato il più alto numero di premi Nobel, le più grandi scoperte della medicina, della scienza, della tecnologia e molto altro; nei lager decine di migliaia di ebrei affidarono alla musica la polizza assicurativa della loro esistenza firmata su fogli pentagrammati e oggi non è più sufficiente dare a questa musica un asilo culturale ma (utilizzando la medesima metafora scolastica) occorre dargli una scuola superiore, un’università.
È giunto il tempo della costruzione e collocazione di questa musica negli scaffali della Biblioteca della Storia della Musica del Novecento come altrettanti fiori da deporre in tanti vasi; al contrario di quello di Dita, questi non si romperanno mai e, come i vasi delle klippoth, quelli della Memoria che si fa Letteratura ci forniranno il sapere e le risposte di cui abbiamo bisogno.

Francesco Lotoro