MEMORIA – Addio a Michael Smuss, l’ultimo combattente del Ghetto di Varsavia

Il 17enne Michael Smuss viveva recluso nel Ghetto di Varsavia assieme al padre David e ogni giorno lavorava nella bottega Hermann Brauer, dove si riparavano gli elmetti dei soldati caduti. Fu lì che scoprì che un semplice diluente, usato per togliere sangue e ruggine, poteva trasformarsi in arma. «Per pulire i caschi serviva un certo solvente, ed era perfetto anche per preparare bombe Molotov», ricordò anni dopo. «Ne chiedevo quanto più possibile e lo consegnavo alla resistenza. Riempivamo le bottiglie e le mettevamo sui tetti di tutto il ghetto», raccontò Smuss, scomparso a 99 anni nella sua casa di Ramat Gan, in Israele. Era l’ultimo sopravvissuto della celebre Rivolta del Ghetto di Varsavia dell’aprile 1943.
Nato a Danzica nel 1926, Smuss aveva conosciuto la persecuzione sin dall’infanzia. «Vidi i nazisti entrare nella mia scuola, parlare con l’insegnante, e subito fui mandato a casa. Da quel giorno mio padre cominciò a insegnarmi il tedesco e la storia. Fu ciò che mi salvò più tardi». Dopo l’invasione della Polonia, fu rinchiuso nel ghetto di Varsavia con il padre, dove entrò in contatto con i gruppi clandestini che preparavano la resistenza armata e si unì agli insorti legati al comandante Mordechai Anielewicz.
Il ghetto, istituito nel novembre 1940, era il più grande d’Europa: oltre 400.000 ebrei ammassati in poco più di tre chilometri quadrati. La fame e le malattie dilagavano, i cadaveri restavano abbandonati per strada, mentre le deportazioni verso Treblinka decimavano la popolazione.
Ad aprile 1943, quando i tedeschi si apprestarono a liquidare gli ultimi abitanti, Smuss era pronto a combattere. «Dal tetto vedevamo i poliziotti con i megafoni che ordinavano agli ebrei di uscire. Noi li aspettavamo preparati». Le prime raffiche colpirono i soldati di sorpresa: dalle finestre piovvero proiettili e bottiglie incendiarie. «Era un’imboscata perfetta. Quando i tedeschi si sparpagliarono, diventavano bersagli facili. I loro comandanti non sapevano cosa fare», raccontò Smuss in diverse interviste. «Anche se fossimo stati uccisi quel giorno, saremmo morti felici».
Per settimane gli insorti, male armati e denutriti, riuscirono a resistere all’onda d’urto nazista. Poi Jürgen Stroop, il comandante SS inviato a Varsavia, reagì con la distruzione sistematica del ghetto, palazzo dopo palazzo, fino all’ultima resistenza. Smuss e suo padre furono catturati: la loro immagine compare in una delle fotografie più note del Rapporto Stroop, l’album che documentava con cinico orgoglio la repressione della rivolta. Deportati su un treno diretto a Treblinka, furono risparmiati solo da un imprevisto: la Luftwaffe reclamò lavoratori e il convoglio venne fermato. «Eravamo coperti di fuliggine, pronti a morire. Ma quando il treno tornò indietro, sentii che Dio mi sorrideva. Non volevo morire in quel momento».
Fu deportato a Budzyń, Mielec, Flossenbürg: altri campi, altra fame, altra violenza. Nel campo di Budzyń Michael perse il padre, ucciso dal comandante delle SS dopo un tentativo di fuga disperato. Gli rimase soltanto il suo cappotto, che indossò per tutto l’inverno e che divenne un mezzo di sopravvivenza: nelle ampie tasche i compagni gli nascondevano patate e pezzi di pane rubati.
Nel 1945, nella marcia della morte verso Dachau, Smuss sopravvisse grazie all’acqua piovana raccolta nel berretto. «In altri posti, dove non pioveva, morivano di sete. Noi ci dissetavamo così, goccia dopo goccia». Alla liberazione, ridotto allo stremo, fu portato in ospedale dagli americani.
Dopo la guerra tornò a Łódź, dove ritrovò la madre e la sorella e con loro partì per New York. Per anni tacque, nascondendo il tatuaggio dell’internamento. Poi, trasferitosi in Israele nel 1979, Smuss cominciò a dipingere: tele colorate, ma popolate di ombre. «La musica e la pittura mi hanno aiutato a riprendere il controllo della mia vita». Le sue opere, raccolte sotto il titolo Reflections of a Survivor, sono state esposte in diversi paesi.
La sua nuova missione divenne raccontare. «Ho dedicato la mia vita a fare in modo che non accada mai più. Ho accompagnato studenti in Polonia tante volte, e continuo a parlarne». In una delle ultime interviste, guardando indietro a un secolo di vita, Smuss spiegò: «Ringrazio Dio per avermi salvato. Mi ha tirato fuori da lì per una ragione: perché potessi raccontare cosa è successo».