ISRAELE – «Dopo due anni respiro», l’addio a Yossi Sharabi e l’attesa delle altre famiglie

Davanti alla folla raccolta in silenzio nel cimitero del kibbutz Be’eri, Nira Sharabi scandisce domande senza risposta mentre saluta per l’ultima volta il marito Yossi. «In quale mondo i figli devono seppellire così presto il proprio padre? In quale mondo una madre seppellisce il proprio figlio? In quale mondo una donna deve dire addio all’amore della sua vita quando c’era ancora così tanto da fare?». La voce trema, poi si fa ferma: «I progetti che abbiamo fatto insieme non si realizzeranno mai. Vado a dormire da sola. Mi sveglio da sola. Cerco le tue mani calde che mi stringevano, che proteggevano tutti noi dal mondo… Mi chiedo: come si riempie questo vuoto?». Poi lo sguardo corre alle figlie: «In ognuna di loro appari in modo diverso, e insieme ti completano. Te che mi manchi così tanto».
Accanto a lei, la figlia Yuval aggiunge: «Dopo due anni questa è la prima volta che riesco davvero a respirare. Finalmente sei tornato a casa. Non nel modo che avrei voluto, ma almeno ora puoi riposare». Le sue parole suonano come una chiusura del cerchio: un addio, e insieme una tregua, dopo 749 giorni di attesa.
Ma per 13 famiglie il cerchio resta aperto. Le salme dei loro cari sono ancora prigioniere a Gaza dopo oltre due anni. Hamas, riportano i media locali, ha comunicato ai mediatori di poter individuare nove corpi. «Non è sufficiente. Tutti devono tornare, così come sancito dal cessate il fuoco», contesta il Forum delle famiglie degli ostaggi.
Nel sud, principale teatro delle stragi del 7 ottobre, si prepara intanto un cambiamento dal forte valore simbolico: tra 24 ore sarà revocato lo stato di emergenza, rimasto in vigore senza interruzioni dal giorno dell’attacco. «Ho deciso di adottare la raccomandazione delle Idf e di revocare la situazione speciale nel fronte interno», ha annunciato il ministro della Difesa Israel Katz, parlando di una «nuova realtà di sicurezza» conquistata a caro prezzo dai soldati contro i terroristi palestinesi.
Anche il nord prova a guardare avanti. La Knesset ha approvato lo stanziamento di oltre 300 milioni di dollari per la ricostruzione delle comunità colpite dagli attacchi di Hezbollah: fondi indispensabili, ma rimasti a lungo bloccati da intoppi burocratici, mentre 60.000 sfollati vivevano tra incertezza e precarietà. «Abbiamo già impegnato milioni con gli appaltatori; stiamo crollando sotto il peso», ha denunciato uno dei rappresentanti locali a Ma’ariv.
Sul fronte diplomatico, il punto rimane il futuro di Gaza. Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar, in missione a Budapest, ha accusato l’Autorità nazionale palestinese di non aver mai davvero interrotto la politica dei cosiddetti “pagamenti per uccisione”. «Contrariamente alle promesse fatte in inglese, l’Anp ha solo cambiato metodo. I terroristi ritirano i soldi all’ufficio postale», ha dichiarato, puntando il dito anche contro l’Unione Europea, colpevole a suo avviso di aver concesso «legittimità senza responsabilità». Per questo, Sa’ar ha ribadito la contrarietà del governo israeliano all’ipotesi di un coinvolgimento dell’Anp nella futura amministrazione della Striscia.
Accuse e diffidenze si intrecciano a un quadro regionale che per lo storico Yuval Noah Harari rivela però un dato positivo: «La guerra iniziata il 7 ottobre 2023 ha dimostrato che in Medio Oriente ci si può fidare degli accordi di pace», scrive lo storico sulle colonne di Ynet.
Se Hamas non ha mai riconosciuto Israele né rispettato alcun impegno, i patti siglati con Egitto, Giordania e Paesi del Golfo hanno resistito alla prova più dura. «Gli accordi che Israele ha firmato con i suoi vicini arabi sono stati messi alla prova in modo estremo e hanno superato il test con successo», osserva Harari, ricordando che «non era affatto scontato».
Per Harari la lezione è soprattutto una: mentre la guerra del 7 ottobre ha mostrato i limiti della sola forza militare, i trattati hanno garantito una continuità silenziosa ma fondamentale. «Il silenzio di questi due anni è importante quanto i rumori delle esplosioni e dei combattimenti». Ed è proprio in quel silenzio, conclude lo storico, che Israele può intravedere un varco per il futuro.