DIALOGO – Massimo Giuliani: Un anniversario in tempi bui, ma lavoriamo per nuovi frutti

Ieri, 28 ottobre, ricorreva il il sessantesimo anniversario di Nostra Aetate, la dichiarazione del concilio Vaticano II (non è un’enciclica né un testo papale) sulle relazioni della chiesa cattolica con le religioni non cristiane. Non è tutta dedicata ai rapporti con l’ebraismo, solo il punto n.4 ne parla. Ma si tratta del punto più lungo e, teologicamente parlando, più innovativo per la chiesa, perché rompe con una secolare tradizione di disprezzo religioso verso gli ebrei e di “sostituzionismo”, ovvero l’idea che Israele sia stato sostituito dalla chiesa stessa nel progetto divino. In termini di storia delle idee si tratta di una rivoluzione, per la quale era addirittura impossibile citare un documento ecclesiale degli ultimi diciannove secoli che dicesse qualcosa di positivo su ebrei ed ebraismo. Perciò si fa riferimento soltanto ai famosi capitoli 9-11 della lettera di Paolo ai Romani. Il mondo ebraico più attento e aperto capì che si trattava di una svolta epocale e, quando fu possibile, la incoraggiò. Si tenga conto che molti vescovi (specie quelli provenienti da paesi arabi) erano assolutamente contrari a modificare la tradizionale ostilità antigiudaica e che la formulazione di quel punto n. 4 aveva avuto un’iter difficilissimo prima della sua approvazione in concilio. Il vero regista fu il cardinale tedesco Agostino Bea, che era un biblista e aveva rapporti con il mondo ebraico.
Questo testo conciliare, riletto sessant’anni dopo, appare tanto solenne quanto “modesto”. Si rimuove, sì, l’accusa universale di deicidio, ma si parla ancora di “autorità ebraiche e dei loro seguaci che si adoperarono per la morte di Cristo”; circa lo status di popolo di Dio per gli ebrei si dice soltanto, in negativo, che “non devono essere presentati come rigettati da Dio né come maledetti”; si tace del tutto sia sulla tragedia della Shoah sia sull’esistenza dello stato di Israele (si era nell’ottobre del 1965), ossia sui due singoli eventi che hanno segnato in profondità l’identità ebraica nella seconda metà del Novecento sino ad oggi. Ma occorre vedere Nostra Aetate come l’inizio di un percorso che si è dipanato in altri successivi documenti cattolici più articolati e complessi; è stata cioè un seme che ha dato in seguito frutti concreti a tutti i livelli: nelle relazioni umane di base (si pensi alla rete delle amicizie ebraico-cristiane), nei colloqui tipo Camaldoli e nelle collaborazioni accademiche; e per finire con il riconoscimento dello stato di Israele (nel 1993) e un documento sulla Shoah (1997). Va comunque sottolineato che si tratta di un documento della chiesa rivolto ai cattolici, non agli ebrei.
Certo, prima del 7 ottobre 2023 sarebbe stato difficile immaginare tempi più bui per celebrare questo anniversario. Quel tragico “sabato nero” e la guerra a Gaza che ne è seguita sono diventati oggetto di valutazioni molti diverse da parte cristiana, non solo cattolica, rispetto alla sensibilità ebraica. Sono volate parole grosse, come “ebrei vendicativi”, “che fanno ai palestinesi quel che hanno subìto dai nazisti”, ecc. anche da parte di cardinali. Dopo le prime ore di solidarità, già dall’8 ottobre molti esponenti della chiesa si sono schierati con la causa palestinese, non riuscendo neppure a distingure tra Hamas e civili, come se la guerra fosse solo frutto dell’odio ebraico verso dei poveri bambini indifesi. Sino ad oggi, da parte di molti membri della chiesa, Gaza è una nuova Auschwitz perpetrata da Israele. Molti preti hanno indossato la kefiah ed esposto la bandiera palestinesi sugli altari, marciando addirittura sotto lo slogan genocidario “from the river to the sea” e sposando in modo acritico la retorica di Hamas. La chiesa nel suo complesso è stata incapace di capire davvero cosa stesse “dietro” il 7 ottobre, il dramma dei rapiti/ostaggi e delle loro famiglie, e persino la natura della guerra (ignorando la loro stessa dottrina in materia). Un irenismo intellettualmente spaventoso, per un’agenzia educativa coma la chiesa vorrebbe essere, ha ostruito la capacità di analisi e di distinzioni, ad esempio distinguendo le azioni del governo israeriano dalla società che chiedeva la fine della guerra e il rilascio degli ostaggi. L’empatia della chiesa è stata unilaterale, figlia di una emotività priva di analisi geopolitica e di storicizzazione.
Queste incomprensioni storiche, politiche e umane, peseranno a lungo nei rapporti tra mondo cristiano e mondo ebraico, anche se i canali ufficiali del dialogo continueranno a funzionare e gli incontri ad alto livello non cesseranno. Anche la retorica del “volemose bene” continuerà, ma la sfiducia reciproca è palpabile e profonda. Sembra che i due mondi stiano leggendo pagine diverse della storia. Ma forse si tratta di un problema che precede il 7 ottobre. Forse alcune idee e sentimenti negativi verso gli ebrei non sono mai scomparsi e funzionano, anche nella chiesa, da facile spiegazione della complessità del mondo, certamente del Medioriente, per il quale si parla di “terra santa” invece che di Israele, per evitare anche il nome del popolo al quale non si vuole riconoscere piena sovranità politica. È una sottile forma di delegittimazione.
Nostra Aetate non è nata come un’agenda programmatica per il dialogo ebraico-cristiano, che si è sviluppato su binari diversi già prima del 28 ottobre 1965 (e pure nel mondo cristiano non cattolico). Tra cattolici ed ebrei il dialogo lo hanno fatto le persone, prima che i documenti o le istituzioni: penso a Maria Vingiani e Jules Isaac, a Renzo Fabris e rav Kopciowski, a Paolo De Benedetti e Lea Sestieri, a Nathan Ben Horin e Miriam Viterbi, e in anni più recenti il cardinale Carlo Maria Martini e rav Giuseppe Laras (ma senza mitizzare). Anche qui non sono pochi gli equivoci e le asimmetrie: gli ebrei dialoganti, pochi, guardano al dialogo con aspettative connesse al contrasto dell’antisemitismo e alla rimozione dei pregiudizi religiosi che deformano l’identità ebraica; i cattolici e i cristiani in generale, altrettanto pochi, sono più interessati agli aspetti teologici perché hanno il bisogno di elaborare la propria “radice ebraica”. Le due prospettive dialogiche, in quanto asimmetriche, li portano spesso su sponde diverse, dalle quali risulta difficile anche il semplice “ascolto reciproco”, un’altra parola retorica come “pace” o “perdono”, termini che significano cose diverse dalle rispettive diverse angolature. Ciò nonostante questo dialogo esiste, alcuni ci credono e si impegnano, e questo grazie certamente alla svolta di Nostra Aetate, che merita oggi di essere celebrata non solo per i frutti già dati ma anche per quelli futuri, che matureranno con le prossime generazioni di ebrei e cattolici (se supereremo l’inverno demografico).

Massimo Giuliani, docente di Filosofia ebraica all’università di Trento e al Diploma in studi ebraici dell’Ucei, direttore del quadrimestrale Avinu. Rivista per il dialogo ebraico-cristiano (ed. Castelvecchi)

(Nell’immagine: l’eremo di Camaldoli, sede da molti anni dei colloqui ebraico-cristiani)