DIALOGO – Rav Arbib: Nostra Aetate un cambio radicale ma parlare fra élite non basta

«Moderazione nel linguaggio, riportare le questioni alle giuste proporzioni e soprattutto allargare l’empatia. Non può esserci compassione solo per alcuni: se non è universale, diventa discriminazione». Per rav Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea rabbinica e rabbino capo di Milano, il futuro del dialogo ebraico-cristiano passa da questi elementi. Mentre si celebrano i 60 anni dalla Nostra Aetate, la dichiarazione conciliare che nel 1965 segnò l’inizio di una nuova fase nei rapporti tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico, oggi è impossibile non parlare delle ferite maturate negli ultimi due anni e della necessità di trovarvi risposta.
La Nostra Aetate, ricorda il rabbino capo di Milano, ha segnato un cambiamento radicale: «La Chiesa ha abbandonato l’obiettivo della conversione degli ebrei, ha rigettato l’accusa di deicidio e ha cominciato a superare la teologia della sostituzione, secondo cui il popolo ebraico non fosse più il vero Israele e il suo patto con Dio non fosse più valido». Come ha ricordato papa Ratzinger, «i doni di Dio non sono revocabili e l’alleanza con Israele permane. È stato un passo enorme, che ha aperto un clima totalmente diverso nel rapporto con il cristianesimo».
Ma accanto ai progressi, restano limiti e ambiguità. «Il nodo più complesso è il rapporto con Israele e con la Terra d’Israele. Le relazioni con il Vaticano sono state a lungo problematiche e in parte lo sono ancora». Un esempio è nel linguaggio usato dalla Chiesa. « Si parla sempre di “Terra Santa” al posto di Israele, e questa non è una semplice sfumatura. In qualche misura, significa non riconoscere fino in fondo il legame indissolubile tra il popolo ebraico e la sua terra».
Un problema che emerge anche quando si parla delle politiche dello stato ebraico. «La critica al governo è legittima – precisa il presidente dell’Ari – ma quando si passa all’ostilità verso Israele in quanto tale, questa si trasforma inevitabilmente in ostilità verso gli ebrei. Israele e l’ebraismo non possono essere separati». E da una parte di mondo cristiano questo elemento è stato dimenticato.
Un secondo punto debole del confronto con la Chiesa «è stato messo in luce molte volte da rav Giuseppe Laras: il dialogo interreligioso è rimasto un dialogo di élite, che non ha toccato davvero le masse. Certo, esistono pronunciamenti importanti e relazioni a livello ufficiale, ma i frutti concreti non sono sempre arrivati alla base delle comunità. E questo si vede con il ritorno non casuale di pregiudizi e stereotipi del passato dopo il 7 ottobre». Dall’ebreo vendicativo e crudele fino all’accusa di infanticidio, la guerra contro Hamas a Gaza ha riaperto un vaso di Pandora. «Pensavamo questo antisemitismo fosse superato, e invece. Del resto, come spiegava il medico Leo Pinsker, uno dei precursori del sionismo: l’antisemitismo è una patologia ereditaria, molto difficile da combattere perché radicata e persistente». E una delle sue forme nuove e più insidiose è quello che Arbib definisce «l’antisemitismo dei buoni: persone che si sentono dalla parte giusta della storia, animate da un senso morale superiore, ma che in nome di quella presunta moralità finiscono per legittimare ogni accusa e ogni pregiudizio contro Israele e gli ebrei». Per questo l’appello del presidente dell’Ari al mondo cattolico, ma non solo, è di ritrovare «moderazione nel linguaggio e conoscenza della storia. Bisogna evitare di trasformare ogni questione politica in una questione morale assoluta».
In merito all’uso delle parole, il rabbino capo di Milano sottolinea come esempio positivo il lavoro delle 16 schede per conoscere l’ebraismo promosso dalla Conferenza episcopale italiana e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. «Ma sarebbe utile diffonderle non solo tra le scuole, ma anche attraverso i giornali e i media cattolici. Serve trasmettere una comunicazione più equilibrata, capace di ridare proporzione alle cose».
Per Arbib, un altro punto critico riguarda l’empatia. «Oggi si nota una fortissima empatia verso i palestinesi, percepiti come vittime, ma non c’è stata un’analoga empatia verso gli israeliani il 7 ottobre. Nemmeno verso gli ostaggi. Questo squilibrio non è solo un problema di opinioni: è un problema emotivo che ha un risvolto concreto nella quotidianità. L’empatia non può essere unilaterale, deve saper tenere insieme le sofferenze di tutti».
Il presidente dell’Ari osserva infine come, negli ultimi anni, il dialogo con l’ebraismo sembri essere passato in secondo piano, mentre ha assunto sempre più centralità quello con l’Islam. «La Nostra Aetate è stata talvolta reinterpretata come un documento dedicato al dialogo interreligioso in generale, e questo è vero. Tuttavia, per decenni è stata letta e vissuta soprattutto come il testo che segnava un cambiamento decisivo nel rapporto tra la Chiesa e l’ebraismo. Oggi, invece, si tende a porre l’accento sul dialogo con tutte le religioni e in questo anniversario è un dato su cui riflettere».

Daniel Reichel