REGNO UNITO – Ministra Sackman contro l’antisemitismo diffuso

Sarah Sackman, deputata laburista e ministra della Giustizia britannica, ha descritto in un recente intervento un fenomeno che chiama «antisemitismo ambientale»: non un odio esplosivo ma una condizione sospesa, quasi atmosferica. È l’aria che si respira in certe conversazioni, nei silenzi imbarazzati, nelle battute che passano per ironia, negli inviti a “non parlarne”; è l’antisemitismo che non si dice, ma si sente. Il tema attraversa oggi la società britannica con un’urgenza inedita: racconta Lorin Bell-Cross sul The Jewish Chronicle che Sackman ha lanciato una consultazione tra i propri elettori per raccogliere testimonianze dirette: vuole «portare i timori crudi, il dolore reale» di chi non si sente più al sicuro nel proprio paese. Non è una figura isolata nel denunciare questa sensazione diffusa. Lo conferma una recente ricerca del Jewish Policy Research (JPR) – centro indipendente di studi sulla vita ebraica in Europa–: secondo cui quasi la metà degli ebrei britannici ha sperimentato episodi di antisemitismo ambientale nell’ultimo anno, a fronte di meno di uno su dieci prima del 7 ottobre. Più di due terzi affermano di sentirsi oggi meno sicuri, e molti scelgono di nascondere segni visibili della propria identità. Il JPR parla di «parole o gesti apparentemente innocui spesso considerati un commento legittimo, ma che feriscono». È una definizione che coglie il carattere sfuggente di questa forma di ostilità: non abbastanza grave da essere denunciata, ma capace di erodere la fiducia reciproca. Sackman insiste sul fatto che la risposta non può limitarsi alla sicurezza fisica di sinagoghe e scuole: «Non basta mettere barriere», afferma. Serve una trasformazione culturale: un ambiente in cui la presenza ebraica non sia semplicemente tollerata, ma pienamente riconosciuta. La ministra cita con favore l’iniziativa del ministero dell’Istruzione di collaborare con la Union of Jewish Students per formare il personale scolastico al riconoscimento dell’antisemitismo e includere l’educazione sulla Shoah nel curriculum degli studi. È un passo minimo ma simbolico in un contesto in cui anche la cultura popolare contribuisce, talvolta inconsapevolmente, a normalizzare l’ostilità. Quando, al festival di Glastonbury, durante un concerto è comparso lo slogan «morte alle IDF» molti hanno preferito interpretarlo come un atto politico, mentre Sackman ha reagito definendolo «ripugnante». Per lei non si può ignorare la ferita che certi linguaggi aprono, anche quando non intendono colpire direttamente gli ebrei. Il termine «antisemitismo ambientale» si colloca in una tradizione di analisi più ampia. Jonathan Boyd, direttore del JPR, osserva che questo tipo di antisemitismo può diventare “normalizzato”: un’abitudine collettiva a tollerare la diffidenza verso gli ebrei, quasi fosse parte naturale del discorso pubblico. Lo scrittore e giurista Anthony Julius, in Trials of the Diaspora, ne ha ricostruito le radici nella cultura britannica, dal pregiudizio letterario di Shakespeare fino alle ambiguità dell’accademia contemporanea. Resta aperta la questione del linguaggio. Come distinguere una critica legittima a Israele dall’ostilità verso gli ebrei come gruppo? Come fissare un confine condiviso? Sackman e altri richiamano la definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA): «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso di loro». È un punto di partenza per un dibattito che deve restare aperto, ma che richiede una responsabilità linguistica nuova. Alla fine ciò che Sackman chiede non è protezione in più, ma un’aria diversa. Non una società che “difenda” gli ebrei, ma una in cui l’ebraismo non abbia bisogno di essere difeso. In un tempo che sembra riscoprire la facilità dell’odio, la sua proposta è paradossalmente semplice: riconoscere che la sicurezza non si costruisce soltanto con telecamere o leggi ma con le parole che scegliamo e con i silenzi che non vogliamo più lasciare passare.

a.t.