ISRAELE – Rabin, le registrazioni inedite a 30 anni dalla morte

«Chi vuole prendersi il merito del successo deve anche assumersi la responsabilità del fallimento».
Con questa frase, ripetuta in diverse fasi della sua carriera militare e politica, Yitzhak Rabin riassumeva una visione del potere e della leadership fondata sulla responsabilità, sul pragmatismo e sulla consapevolezza del limite. A trent’anni dal suo assassinio per mano di un estremista ebreo israeliano, nuove pubblicazioni d’archivio restituiscono il ritratto di un leader che cercò di tenere insieme forza e compromesso, sicurezza e dialogo, realismo e speranza.
L’Archivio di Stato israeliano e l’Archivio militare hanno reso pubblici, in occasione dell’anniversario, una vasta raccolta di documenti e registrazioni che coprono quasi un decennio di attività politica e militare del Premio Nobel per la pace. Dalle lettere private agli appunti di governo, dai verbali del Gabinetto alle registrazioni delle riunioni con lo Stato Maggiore, emerge la visione coerente di un uomo che credeva nella potenza militare come garanzia di esistenza, ma anche nella diplomazia come unica via per dare un senso a quella forza.
In una delle registrazioni del 1976, Rabin affermava che il conflitto arabo-israeliano poteva esistere solo entro due realtà alternative: o la priorità data alla via politica o quella militare. «Nessun leader arabo», spiegava, «crede di poter portare avanti un processo politico senza forza militare. Ritengono, non a torto, che Israele non cederà neppure un centimetro se non disporrà del potere necessario per farlo». Per Rabin, la sicurezza era una condizione necessaria del dialogo: «Israele non può esistere senza forza militare, nel senso più semplice del termine: sopravvivenza politica e fisica», dichiarava nel 1977, poco dopo le dimissioni dal primo incarico alla guida del governo israeliano. Ma il primo ministro dimissionario aggiungeva che il vero compito dell’esecutivo era «spostare il peso dal confronto militare alla possibilità di negoziati». Non si trattava, per lui, di una scelta morale, ma di una necessità strategica: «I negoziati come obiettivo centrale non significano necessariamente il raggiungimento della pace. Significano un cambiamento delle priorità».
Rabin non era un idealista della pace, ma un realista del compromesso, ricordano alcuni ex generali intervistati dall’emittente Kan in un podcast dedicato al Premio Nobel. «L’obiettivo preferibile è la pace, ma è anche possibile un accordo provvisorio globale. Non escluderei nemmeno altri accordi», dichiarava, sempre nel 1977, in una una riunione del Forum dello stato maggiore. L’essenziale era avviare il dialogo, purché la deterrenza militare restasse intatta. «Una politica che cerca negoziati senza garantire un parallelo potenziamento militare non ha diritto di esistere», ammoniva.
Nelle stesse registrazioni, Rabin rifletteva sui confini d’Israele e sul peso dell’ideologia territoriale. «Non conosco una sola linea che sia mai servita da confine tra Israele e gli Stati arabi che avesse una base ideologica», osservava. «Né il piano di spartizione del 1947, né le linee dell’armistizio del 1949, né quelle create dopo la Guerra dei Sei Giorni. Nessuno aveva un impegno ideologico nei confronti dei confini: essi sono stati formati dalle circostanze, non come obiettivi predeterminati».
In altre parole, Rabin concepiva i confini non come simboli, ma come strumenti di sicurezza e di sopravvivenza, suscettibili di adattamento attraverso il negoziato.
Un altro tema ricorrente nei nastri è la dipendenza di Israele dal sostegno americano, che Rabin considerava un pilastro irrinunciabile della sicurezza nazionale. «Senza le forniture di armi e i finanziamenti americani, non possiamo raggiungere il necessario potenziamento militare», dichiarava. «Il 50% delle armi di Israele proviene dagli Stati Uniti: è il cuore dell’arsenale delle Idf». In un discorso del 1967, citava il segretario di Stato Dean Rusk: «Se volete che vi accompagniamo in un atterraggio di emergenza, consultateci durante il decollo». Il messaggio, spiegava Rabin, era chiaro: Israele non poteva pretendere solidarietà nei momenti di crisi senza un coordinamento strategico costante con Washington. Una situazione «simile a quella attuale», osserva l’ex capo delle forze armate, Gadi Einsenkot, intervistato da Kan.
Ma forse il tono più personale emerge quando Rabin parla dell’isolamento di Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni. «Da quando la guerra è finita, la nostra solitudine si è solo accentuata», confessava. «Pochi tendono una mano alle nostre aspirazioni sioniste. Non tutti gli ebrei sono sionisti, e ancora meno lo sono i gentili». Pur riconoscendo la crescente distanza del mondo, non perdeva del tutto la fiducia: «Credo che se questa generazione riconoscerà pienamente la propria responsabilità e le opportunità che ha davanti, potremo resistere alle pressioni e raggiungere i nostri obiettivi».

d.r.