NEW YORK – Simone Somekh racconta le inquietudini degli ebrei dopo l’elezione di Mamdani

«Zohran Mamdani è un mio coetaneo, un millennial molto carismatico, simpatico, uno che sorride tutto il tempo ed è certamente molto consapevole dei trend e di come vivono i giovani newyorkesi. Ma è anche membro di Democratic Socialists of America, un’associazione molto problematica, e il gruppo newyorkese, in particolare, ha tra i suoi principi fondanti l’essere anti Israele». Ragiona a voce alta, Simone Somekh, torinese, che da nove anni vive a New York: «Io non voto, non ho la cittadinanza; la sua campagna elettorale l’ho seguita, come avevo seguito la precedente, anche se non posso certo dirmi un esperto dell’argomento. Vanno ricordate alcune cose: è indubbio che questa città continua a spingere fuori dal suo territorio i giovani e le famiglie; è costosissima e la qualità della vita continua a calare rispetto ad altre metropoli globali che fino a vent’anni fa erano molto indietro rispetto a New York mentre oggi sono anni luce avanti. Non ho dubbi sul fatto che ci siano problemi enormi che vanno risolti». 

Zohran Mamdani, eletto sindaco il 4 novembre, ha ora davanti a sé circa due mesi prima di assumere l’incarico. Dal 2026, spiega Somekh, «la capitale del capitalismo avrà come sindaco un anticapitalista che vuole tassare i miliardari, rendere la città più equa, in cui tutti possiamo permetterci di vivere. E la sua campagna elettorale è stata oggettivamente fantastica: gestita da giovanissimi, fatta benissimo, coerente, con una forte presenza online a base di reel, tiktok, video in cui è stato usato un filtro di colori molto specifico, e per di più non imposta dall’alto ma forte di una base variegata, in cui i giovani hanno molto contribuito. E ha giocato a suo favore anche la voglia di provare qualcosa di nuovo, di un’ondata di aria fresca, la curiosità di vedere cosa porta… ma io so che i Democratic Socialists of America già la sera del 7 ottobre 2023 erano scesi in piazza a manifestare. Per i palestinesi». 

Va ricordato anche che lo stesso gruppo ha tolto il suo endorsement a Alexandra Ocasio Cortez (che al contrario di Mamdani ambisce al Senato e forse alla presidenza, obiettivi a lui preclusi perché non è nato negli Usa), perché è considerata troppo moderata, e non abbastanza radicale nella sua posizione contro Israele. Somekh ricorda anche che Mamdani non ha esperienza politica, anzi – aggiunge – non ha praticamente esperienze lavorative di alcun genere. E, continua la sua riflessione che definisce ragionamento ad alta voce fatto troppo presto per essere un’opinione consolidata: «È vero che c’è una grande sproporzione tra quello che pago io di tasse e quello che pagano i miliardari, che negli Usa hanno mille modi per non pagarle per nulla. In questa città i problemi sono reali e io credo che Mamdani abbia davvero intenzione di fare le cose che ha promesso in campagna elettorale, anche se sembrano lunari, e forse irraggiungibili. Va anche riconosciuto che adesso che è stato eletto ha già moderato il linguaggio. La sua vittoria era prevista e prevedibilissima, e a suo favore ha giocato anche il fatto che gli altri due candidati erano davvero lontano dall’essere perfetti: da una parte da una parte Eric Adams – il sindaco uscente, che si è ritirato dalla campagna poche settimane prima delle elezioni – accusato di corruzione e coinvolto in scandali internazionali enormi, e dall’altra Andrew Cuomo, che non solo è anche lui molto problematico ma ha fatto una pessima campagna, condotta male, che sembrava venire da un altro tempo con in certi toni un sottofondo anche un po’ razzista. Lui ha molto spinto sull’idea che con Mamdani la città viene lasciata in mano ai terroristi: ha mescolato preoccupazioni reali con le paure di chi vedeva nel futuro sindaco il candidato “diverso” e soprattutto musulmano». 

In questo momento nella New York ebraica, spiega Somekh, prevalgono la preoccupazione e la rassegnazione perché si sapeva che avrebbe vinto: «All’interno della comunità il morale è molto basso, sono tutti molto afflitti, demoralizzati, e si sentono un po’ traditi. C’è un senso profondo di ingiustizia, questa è una città che è stata fatta dalla popolazione ebraica, senza ebrei non sarebbe diventata New York. E la paura, secondo me molto legittima, è che NY diventi come Londra o Parigi, con molte zone in cui non è bene essere visibilmente ebrei. Qui non è come in Europa, non esisteva proprio l’idea stessa di non essere al sicuro solo perché si porta la kippà». Ora è necessario capire cosa succederà: la preoccupazione principale degli ebrei in città è la sicurezza, per cui la collaborazione tra tutte le comunità, i centri sociali e culturali e tutte le istituzioni ebraiche con il dipartimento di polizia è essenziale per preservare quella sicurezza, «che negli ultimi due anni ha visto trasformare il modo in cui si vive la quotidianità in una direzione più simile a ciò che siamo abituati a vedere in Europa. Non è dato sapere cosa farà, a livello pratico, e nonostante tutte le preoccupazioni – segnala Somekh – una delle sue primissime dichiarazioni una volta eletto è stata di condanna nei confronti di un atto antisemita rivolto contro una yeshiva a Brooklyn. Ora ci sono ovunque i controlli all’ingresso, le prove di evacuazione e la sicurezza, quelle cose che per un ebreo europeo sono normali ma per un ebreo newyorkese sono recenti, molto nuove: Sarà essenziale vedere che da sindaco darà tutto il sostegno possibile, necessario a garantire la nostra sicurezza. È una città molto variegata, ha la sua base ma dovrà lavorare anche con Wall Street e coi miliardari, dovrà tenere insieme tutti i pezzi, le diverse identità… e quindi dovrà lavorare anche con gli ebrei. È profondamente contro Israele, in modi che emergono in maniera evidente, e l’ambito da cui proviene, quello dei Democratic Socialists of America è la parte più radicale, più aggressiva, meno disponibile a trovare compromessi e soluzioni. Il linguaggio in genere è molto aggressivo, e c’è la preoccupazione che la retorica di Mamdani dia coraggio a qualche personaggio violento, a qualche esagitato che potrebbe sentirsi autorizzato, se non galvanizzato, e compiere qualche atto inconsulto».

La posizione del neoeletto sindaco è ambigua su vari punti: sono emersi video di lui da giovane in cui si esprimeva in maniera molto aggressiva su Israele e sul suo esercito, ma anche sulla polizia di New York. Ma uno dei momenti cruciali, continua Somekh, è stato quando gli è stato chiesto cosa pensasse dello slogan “globalize intifada” usato nei campus. «All’inizio ha detto che lo sentiva come un grido che dava voce a una volontà di giustizia e di uguaglianza, vi ha letto qualcosa che nessun ebreo può condividere. Per gli ebrei è esportare la violenza, e Mamdani evidentemente non voleva prendere distanza». Non ha capito neppure quanto sia forte la preoccupazione degli ebrei di New York per il terrorismo, che riconoscono come una possibilità reale, non una paranoia. D’altro canto, nell’America di Trump un uomo nato in Uganda, figlio di immigrati, che si propone di diventare sindaco “per tutti i newyorkesi” ha vinto grazie all’idea dell’affordability, promettendo autobus gratuiti, blocco degli affitti e supermercati comunali, tutti strumenti concreti che rimandano a un’idea di comunità e assistenza reciproca. E, afferma Somekh: «Mamdani è più onesto, gli darei molto più credito rispetto a Trump, che ha corso anche lui sull’affordability ma non ha fatto nulla, e il primo anno del suo mandato l’ha dedicato alla vendetta contro i nemici, a inseguire il Nobel per la Pace e guadagnare un sacco di soldi mentre in questo momento sono sospesi anche quei sussidi che garantivano ai bambini più poveri di poter almeno mangiare». Ha poi sottolineato che nonostante il montare di un nuovo antisemitismo NY (dove circa un abitante su otto è ebreo) resta comunque un ottimo posto, una città dove la comunità prospera ed è viva e visibile, e attiva. E il 33 per cento ha votato per lui: «Non ha aiutato il fatto che Cuomo fosse un candidato molto problematico, e in molti hanno cercato di ignorare il clamore intorno a Mamdani e di guardarlo solo per come si presentava davvero. Del resto molti ebrei qui non sostengono il governo di Israele. E c’è anche un elemento anti Trump in questo voto ma preoccupa anche che la città diventi un campo di battaglia tra i due. Penso che la preoccupazione per le posizioni di Mamdani sia legittima, se non riesci ad avere la chiarezza morale necessaria per affermare senza esitazione che non solo la violenza contro gli ebrei non va bene ma anche che un certo tipo di retorica violenta non è accettabile, non puoi fare il sindaco di NY. Detto questo va chiarito che qui non c’è una folla pronta a fare le valigie: sì, siamo preoccupati, sì, siamo delusi, ma non abbiamo motivo di andarcene, la comunità resta attivissima e serena. Dovremo essere molto attenti e aspettare di vedere come si muoverà il nuovo sindaco. Fino a oggi era campagna elettorale, i giochi si apriranno davvero solo quando sarà insediato».

a.t.