IL RITRATTO – Rav Caro racconta i primi 90 anni della sua intensa vita, in tante città e con un amico molto speciale

«Ho tanti progetti in testa. Mi son detto: li affronterò quando andrò in pensione. In teoria sono in pensione da trent’anni, però sono sempre impegnato».
Prende ancora la vita con il sorriso Luciano Meir Caro, il decano dei rabbini italiani. Nato a Torino nel 1935, rabbino capo di Ferrara dal 1990, ha da poco compiuto novant’anni. «Il conteggio dei tuoi anni in ghematria corrisponde alla lettera “zadik” ed è proprio quello che hai maturato nel tuo essere per tutti noi», gli ha scritto in un affettuoso messaggio di felicitazioni la presidente Ucei, Noemi Di Segni.
Zadik, saggio. È così che si sente? «Ho dato molto, ho ricevuto molto», è il bilancio del rav con Pagine Ebraiche. La “vocazione” arrivò per lui immediatamente dopo la guerra. «Fu in realtà una vocazione duplice, perché eravamo sempre insieme. Con “insieme” intendo io e il mio amico Giuseppe Laras: lui nella Shoah aveva perso la madre, io il padre. Abbiamo iniziato a frequentare la sinagoga provvisoria messa in piedi a Torino dal rabbino Dario Disegni. “Volete seguire un corso?”, ci chiese. Sarebbe stato difficile dire di no a una personalità del genere. E poi, abbiamo convenuto, studiare qualcosa in più male non ci farà. È stata una folgorazione, ci siamo fatti trascinare e appassionare al punto che alcuni anni dopo siamo diventati entrambi rabbini, seguendo ciascuno il suo percorso. Dopo il conseguimento del titolo di maskil siamo stati mandati in Comunità prive di rabbini per le festività solenni, così da farci le ossa. Rav Laras andò più volte ad Ancona, io a Venezia». Caro divenne maskil nel 1956, al Collegio Rabbinico di Torino, mentre nel 1959 ottenne il titolo maggiore di chakham in quello di Roma. Nello stesso anno fu chiamato a ricoprire il ruolo di vice rabbino del capoluogo piemontese, carica che mantenne fino al 1976. È stato poi rabbino capo di Trieste per un paio d’anni («Un cambiamento notevole, per la prima volta non avevo nessuno sopra di me: ero io il responsabile di tutto») e dal 1978 al 1988 ha svolto la stessa funzione a Firenze. Dal 1990 è a Ferrara ed è anche rabbino di riferimento per altre Comunità: oggi Pisa e Vercelli, in passato Verona e Mantova. «Dopo gli anni di Firenze, i più intensi, con tante luci e qualche fisiologica ombra, avevo pensato di lasciare il rabbinato per avere più tempo per studiare», racconta rav Caro. «Poi è arrivata la chiamata di Ferrara, che ho accettato pensando: è una piccola città, ci starò pochi mesi, poi potrò finalmente dedicarmi ad altro. Quei pochi teorici mesi si sono trasformati in 35 anni di ininterrotta attività. Conservo in casa alcune valigie di allora mai disfatte». Rav Caro è di fatto l’istituzione più longeva di Ferrara.
Nella centrale via Mazzini, dove hanno sede i locali comunitari e il complesso delle sinagoghe, eternata anche da un doloroso racconto di Giorgio Bassani, tutti o quasi lo salutano mentre cammina sorridente al fianco della moglie. E lui ricambia spesso con arguzie e pillole di saggezza. «La Comunità ebraica è minuscola, ha pochi iscritti e molti lo sono a distanza per ragioni sentimentali. Mancano i giovani, mancano i bambini. Questo è l’aspetto un po’ triste del mio lavoro», premette il rav. «Però è anche bello e stimolante essere un ambasciatore di ebraismo e pensiero ebraico, a Ferrara e non solo. La mia presenza è molto richiesta nel territorio».
Da qui il conferimento della cittadinanza onoraria di Ferrara attribuitagli dall’amministrazione comunale nel 2022 per «i valori culturali, etico-morali e sociali» professati durante il suo lungo mandato in città.
Analogo riconoscimento gli è stato dato in anni passati dalla siciliana Siracusa e dalle emiliano-romagnole Forlì, Lugo e Bertinoro, il borgo del grande rabbino e viaggiatore quattrocentesco Ovadia ben Avraham. «Vorrà dire che qualcosa di buono l’ho fatto», sottolinea il diretto interessato. Anche Caro ha viaggiato e continua a viaggiare lungo le strade dell’Italia ebraica. «Ho conosciuto ambienti e riti diversi», spiega. «Sono stato formato nel rito italiano, mentre a Trieste ho incontrato un’alchimia di tedesco e spagnolo e a Firenze mi sono adeguato a quello sefardita. Sono sfide che arricchiscono il bagaglio di un rabbino». Quale il ricordo più intenso di quasi 70 anni di rabbinato? «È stato negli anni fiorentini, quando ho officiato un matrimonio a Gerusalemme», svela rav Caro. «Durante il rito ho pensato a mio padre, morto ad Auschwitz. Chissà cosa avrebbe pensato nel vedere il proprio figlio benedire un matrimonio in Israele. E ho iniziato a piangere».

Adam Smulevich