7 OTTOBRE – I Siegel, dall’incubo di Gaza all’appello all’Onu: «Il mondo non può tacere sulle torture di Hamas»
I giorni della prigionia in mano ai terroristi palestinesi li tormentano. Riportare la mente a quei momenti è una sofferenza terribile, spiegano. Eppure i coniugi Aviva e Keith Siegel, rapiti dal kibbutz Kfar Aza, dalla loro liberazione non fanno che viaggiare e testimoniare. Lo fanno perché ciò che hanno vissuto e ciò che hanno visto non può restare confinato nel silenzio, ribadiscono a ogni incontro. E lo hanno fatto anche davanti al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, chiedendo che i crimini di Hamas non siano dimenticati.
In audizione Aviva ha raccontato che per 51 giorni è vissuta nella paura costante: «Per 51 giorni, ero sicura che sarei morta». Costretta in un tunnel sotto Gaza, affamata e assetata, ha visto le giovani ostaggi tornare dal bagno «tremando». Una di loro le ha confessato che un terrorista «le aveva toccato tutto il corpo e aveva fatto tutto quello che voleva», dopo averla minacciata di ucciderla se avesse parlato.
Anche un’altra ragazza aveva subito abusi, costretta a farsi la doccia davanti ai rapitori. Stesso destino per una giovanissima, di soli 16 anni, che ha ricordato Aviva con voce rotta, «non aveva mai mostrato il suo corpo a nessuno… il terrorista di Hamas se ne stava lì in piedi a fissarla e sorrideva».
La disumanizzazione era totale. «Dovevamo stare sdraiati dalle 17:00 alle 9:00 e non ci era permesso muoverci», ha ricordato Aviva. Perfino il gesto di tirare un piede fuori dalla coperta provocava urla e minacce: uno degli aguzzini «è venuto e ha iniziato a urlarmi che non mi era permesso farlo».
Keith, da parte sua, ha rivissuto l’inizio dell’incubo: «Ci hanno trascinato fuori brutalmente… mi hanno rotto le costole». Una volta a Gaza è stato rinchiuso in isolamento per mesi: «Completamente solo, costantemente nella paura, senza prospettive per il futuro e senza sapere cosa fosse successo ai miei cari a casa». Ha spiegato di essere stato umiliato: «Mi sono stati negati i diritti umani più elementari. Sono stato affamato e privato dell’acqua». Più volte è stato costretto a spogliarsi per soddisfare le richieste dei giovani terroristi: «Mi hanno costretto a spogliarmi davanti a loro e mi hanno rasato il corpo».
In un episodio particolarmente traumatico, è stato obbligato a partecipare alla tortura di una prigioniera: «Due terroristi la picchiavano con un bastone… uno le puntava una pistola alla testa e le diceva che se non avesse confessato di essere una soldatessa l’avrebbe uccisa». Keith ha ricordato che il suo carceriere «aveva il controllo totale» su di lui.
Quando è stato finalmente liberato, dopo 484 giorni, la prima domanda è stata per sua madre. Ha scoperto allora la verità che più lo tormenta: «Mia madre è morta due mesi prima del mio rilascio… non ha avuto la possibilità di sapere che ero tornato a casa e io non ho avuto la possibilità di dirle addio».
Le loro testimonianze non portano solo il peso del dolore personale. Portano una denuncia: quella del vuoto intorno, hanno ricordato i Siegel. Durante l’udienza, il direttore generale del ministero della Giustizia israeliano, Itamar Donenfeld, ha definito le loro parole «un’accusa morale e legale del silenzio del mondo».
d.r.