ISRAELE – Grazia a Netanyahu, Sierra: «Ammissione di colpa e dimissioni non necessarie, ma il caso è eccezionale»

«La retorica violenta non mi influenzerà. Valuterò solo il bene dello Stato», ha promesso il presidente d’Israele Isaac Herzog dopo aver ricevuto dal primo ministro Benjamin Netanyahu la richiesta di grazia. Una mossa inattesa che ha scosso la politica israeliana e riacceso il dibattito tra i giuristi, chiamati ora a confrontarsi con un gesto istituzionale senza precedenti nella storia recente del Paese. Netanyahu, imputato in tre procedimenti per frode, abuso di fiducia e concussione, nelle 111 pagine della sua istanza non riconosce la propria colpevolezza né annuncia alcuna intenzione di lasciare l’incarico.
«Ammissione di colpa e dimissioni non sono requisiti per chiedere la grazia», spiega il giurista italo-israeliano Michael Sierra a Pagine Ebraiche, «perché non esiste una legge che definisca in modo dettagliato questo istituto». La mancanza di requisiti formali, però, non implica che ogni richiesta possa essere accolta: «Il caso Netanyahu è unico nella storia recente perché la grazia viene chiesta prima della conclusione del processo. Una situazione del genere si è verificata una sola volta, nel 1986, nell’affare Bus 300».
In quell’occasione, ricorda Sierra, «la Corte suprema riconobbe che il presidente può intervenire prima della condanna, ma solo in circostanze del tutto eccezionali, quando un interesse pubblico superiore prevale e non esistono alternative ragionevoli». Da allora, sottolinea, «una grazia anticipata non è più stata concessa». E anche allora – osservano diversi giuristi israeliani – il provvedimento fu giustificato da un contesto delicatissimo, segnato da timori per la sicurezza nazionale e da una crisi istituzionale che rischiava di degenerare.
Il parallelo con il 1986, insiste Sierra, non regge. «Nel caso Shin Bet gli imputati avevano ammesso i fatti, si erano dimessi e vi erano timori legati alla sicurezza nazionale», afferma. «Qui non c’è una confessione, non c’è una rinuncia alla carica e non c’è un ostacolo che impedisca al processo di svolgersi». Lo Stato, aggiunge, «ha dimostrato di poter sostenere sia il fronte giudiziario sia quello istituzionale», come già osservato negli scorsi mesi da diversi esperti che hanno notato come neppure il conflitto a Gaza abbia comportato una sospensione delle udienze.
Il punto più critico, per Sierra, riguarda la motivazione invocata dal premier, secondo cui un primo ministro sotto processo non sarebbe in grado di dedicarsi pienamente agli affari dello Stato. «Se il presidente accettasse questa tesi di fatto neutralizzerebbe l’articolo 17 della Legge Fondamentale sul Governo, che prevede esplicitamente che un premier possa essere sottoposto a processo». Una scelta del genere «creerebbe una disparità e contrasterebbe con il principio di uguaglianza davanti alla legge».
Sierra richiama poi una contraddizione: «Per anni Netanyahu ha sostenuto di poter governare pur essendo imputato. Ora sostiene l’opposto. Nel diritto vale il principio per cui non si può affermare una cosa in tribunale e il contrario quando diventa conveniente. È un principio che in common law si chiama “estoppel”». Una posizione già emersa in passato nelle discussioni sull’“incapacità” del premier a governare durante il processo, e sempre respinta anche sulla base delle sue stesse dichiarazioni.
Nemmeno una concessione della grazia chiuderebbe la vicenda. «Nel 1986 la Corte Suprema stabilì che, quando la grazia impedisce l’accertamento giudiziario, l’atto d’accusa può essere sufficiente per inabilitare una persona a ricoprire cariche pubbliche», ricorda Sierra. Applicando quel principio, «una grazia anticipata comporterebbe la cessazione del mandato del primo ministro». Questo punto – già evocato, spiega Sierra, da altri penalisti come Mordechai Kremnitzer – mette in luce un paradosso: ottenere la grazia significherebbe, per Netanyahu, rinunciare comunque alla possibilità di restare in carica.
Anche un eventuale via libera di Herzog non metterebbe la parola fine alla questione. «È molto probabile che ci sarebbe un ricorso alla Corte suprema, non contro il presidente, che gode di ampia immunità, ma contro la firma del ministro della Giustizia, necessaria per la validità dell’atto». La Corte sarebbe quindi chiamata a definire «i confini del potere di grazia, un potere di origine britannica che nel nostro ordinamento non è mai stato precisato fino in fondo». Un intervento giudiziario che, conclude Sierra, costringerebbe Israele a chiarire per la prima volta nella sua storia costituzionale la portata e i limiti di uno degli strumenti più delicati del sistema.

Daniel Reichel