LA DOMANDA – Emanuele Viterbo: Uomini o confini? Una prospettiva

Nella mia città immaginaria esiste una scuola calcio che applica una regola singolare: alle partite ufficiali vengono convocati soltanto i ragazzi nati nel quartiere. Gli altri partecipano agli allenamenti come tutti, indossano la stessa tuta, condividono fatica e speranze, ma la domenica, quando c’è il campionato, niente divisa, neppure panchina: restano fuori. Forse, un giorno, se saranno “abbastanza bravi” – anzi, più bravi degli altri – e quando avranno l’età per partecipare al campionato regionale, potranno anche giocare. Forse.

È una regola non scritta, ma chiarissima: c’è chi gioca e chi si allena. Chi appartiene e chi resta in prova permanente. A chiunque abbia un minimo di senso educativo, è evidente che qualcosa non funzioni. Lo sport dovrebbe insegnare lealtà, inclusione, merito, spirito di squadra. Escludere in base al luogo di nascita, anche concedendo la possibilità di “allenarsi”, non è formazione: è introdurre i bambini all’idea che esistano categorie invisibili e gerarchie implicite. È educarli alla rassegnazione, non al gioco.

Se fosse mio figlio, lo iscriverei? No.

Se mio figlio fosse nato fuori dal quartiere, non lo iscriverei a una scuola calcio che gli negherebbe in partenza la possibilità di giocare alla pari degli altri. Un bambino non deve essere messo nella condizione di “allenarsi senza speranza”. Lo sport deve essere uno spazio in cui possa sbagliare, migliorare, sentirsi parte del gruppo, avere le stesse opportunità degli altri. Iscriverlo in un ambiente che lo esclude per principio sarebbe come insegnargli ad accettare un’ingiustizia come normale. E questo non è educativo.

Ora proviamo a spostare lo sguardo

Non una scuola si calcio, ma una scuola ebraica dell’infanzia. Non un quartiere, ma una definizione identitaria. Non una maglia, ma un’appartenenza. 

Immaginiamo un bambino ammesso alla scuola ebraica: studia, canta, impara le feste e la storia del popolo ebraico, ma non viene considerato ebreo secondo la Halakhà perché sua madre non lo è. È presente, ma in una posizione incerta. Accolto, ma non riconosciuto. Parte del gruppo, ma con una riserva silenziosa. La domanda diventa inevitabile: è davvero così diverso dalla scuola calcio?

Nel primo caso l’esclusione è territoriale. Nel secondo è religiosa e giuridica.

Ma in entrambi i casi il risultato può essere identico: un bambino che cresce sentendosi “meno”. 

Un bambino non è una pratica aperta. Non è un’identità incompleta.

Non può essere educato nella percezione di non essere mai del tutto “dentro” senza pagarne il prezzo. Qui non si tratta di mettere in discussione la Halakhà, che ha una storia e una coerenza interna. Si tratta piuttosto di interrogarsi su come una comunità trasformi le regole in vita vissuta, e su come le affidi ai più piccoli.

Lo iscriverei? Dipenderebbe da una cosa soltanto: da come verrebbe trattato.

Lo iscriverei solo se non venisse mai presentato come “non ebreo” davanti agli altri; non fosse escluso da attività, rituali o simboli; non crescesse con la sensazione di essere meno legittimo degli altri; gli educatori avessero una posizione chiara e rispettosa sul fatto che ogni bambino è pienamente degno e accolto.

Non lo iscriverei se, anche solo implicitamente: venisse etichettato come “diverso”; si percepisse una distinzione tra “veri” e “quasi”; si lasciasse intendere che fosse “provvisorio” o “in attesa di regolarizzazione”; l’identità diventasse una ferita invece che un nutrimento.

Un bambino non è un caso halakhico: è una persona che si forma. Più di ogni definizione formale, per me conterebbe una domanda semplice e decisiva: questa scuola farà bene al cuore di mio figlio o lo ferirà? Se lo farà sentire pienamente a casa, allora sì. Se lo farà sentire in debito, allora no.

Regola e persona

La Halakhà può stabilire criteri – ed è naturale in una tradizione millenaria.

Ma l’educazione di un bambino non può essere ridotta a una norma.

Quando una norma produce sofferenza silenziosa in un bambino, è la norma che va interrogata. Non il bambino.

Uscire dalla logica del “quasi”

Forse è tempo di cambiare prospettiva. Non si tratta di abbattere confini con leggerezza, ma di rimettere al centro l’educazione prima dell’amministrazione dell’identità. Non si tratta di negare le regole, ma di chiederci come esse vengano tradotte in carne, parole, relazioni. Una comunità che teme di includere, lentamente smette di trasmettere. Forse dovremmo tornare a porci una domanda scomoda ma inevitabile: stiamo educando persone o stiamo gestendo confini?

Perché se il prezzo dell’identità è crescere sentendosi “in prestito”, non è identità: è solitudine organizzata. E, alla lunga, una comunità non è forte perché esclude meglio, ma perché sa trasformare la regola in responsabilità e l’appartenenza in relazione viva.

Emanuele Viterbo