MILANO – Addio ad Aurelio Ascoli, dall’espulsione nel ’38 alla cattedra di Fisica

Un giorno dell’autunno del 1938, nella scuola di via Pisacane a Milano, un gerarca fascista entrò in classe «con l’uniforme di orbace, la barbetta nera e gli stivali di cuoio». Si fermò davanti al banco più vicino alla lavagna, dove sedeva un bambino esile, nato a Monza nel 1929, più piccolo dei compagni sia per costituzione sia perché era stato promosso un anno avanti. «Tu, Ascoli, vai a sederti nell’ultimo banco», ordinò. Il piccolo Aurelio rispose: «Scusi, perché? Non ho fatto niente di male. E da laggiù, con i più alti, non vedo la lavagna». La replica fu secca: «Vai perché te l’ho detto io. Vai a casa: i tuoi genitori ti spiegheranno tutto». Aurelio Ascoli, scomparso a fine novembre a 93 anni, per tutta la vita conservò il ricordo traumatico di quel giorno. «Versai una grossa lacrima sul quaderno, e la lacrima sparse l’inchiostro su tutto il foglio». Fu cacciato dalla classe perché ebreo. «Nessuno mi fece una telefonata per chiedermi come stavo. Né il maestro Zambelloni, né il direttore, né i miei compagni. Come se fossi scomparso dalla circolazione». A casa trovò suo padre, l’ingegner Alberto Ascoli, dirigente della Edison e mazziniano repubblicano. «L’ho visto mordersi letteralmente le mani all’idea che l’Italia fosse caduta così in basso», raccontò Ascoli durante le testimonianze pubbliche nelle scuole milanesi. «Questo per me fu un conforto: vedere che ragionava ancora con la sua testa». Una lezione conservata da Ascoli per tutta la vita: «Aurelio era uno scienziato, un professore di fisica all’antica: molto severo, ma molto apprezzato. Aveva una cultura vastissima e uno spirito critico molto avanzato: leggeva tutti i miei testi e li analizzava con una lucidità straordinaria», ricorda a Pagine Ebraiche la storica della Fondazione Cdec, Liliana Picciotto. «Mi ha aiutata moltissimo nel mio lavoro», prosegue Picciotto. «Veniva con me negli archivi comunali e in quelli statali americani per cercare le informazioni sui deportati. Era uno di quei grandi vecchi che sapevano tutto: parlava perfettamente inglese e francese, capiva il tedesco, e se serviva una traduzione difficile, studiava e la faceva». La sua era una cultura profonda, stratificata, mai ostentata: «Ricordava a memoria Catullo e le poesie del liceo, e le declamava benissimo, quasi in modo attoriale».
Dopo l’espulsione del 1938, il Comune di Milano allestì una scuola provvisoria in via Spiga, dove i bambini ebrei potevano seguire le lezioni soltanto nel pomeriggio, separati dai coetanei non ebrei. «Andavo in quinta elementare. Ci sono stato meno di una settimana. Poi non sono più tornato». La famiglia, con le persecuzioni antisemite sempre più aggressive, lasciò Milano per mettersi al riparo. Dopo l’8 settembre 1943, fu organizzata la fuga verso la Svizzera. «Fummo fortunati», sottolineò Ascoli, spiegando come a lui, ai genitori e alla sorella fu concesso di passare la frontiera elvetica, ma ad altri no. «Un giorno sì e due no. Il mio amico Arno Baehr fu respinto tre volte. Il professor Pio Foà fu respinto mentre i nazisti stavano per raggiungerlo. E lo raggiunsero». Foà fu assassinato ad Auschwitz nel dicembre 1943.
La famiglia Ascoli trovò rifugio oltre confine e rimase in Svizzera fino alla fine della guerra. Aurelio rientrò in Italia il 21 settembre 1945, riprese gli studi, conseguì la maturità classica e si iscrisse a ingegneria. Da lì iniziò il suo percorso scientifico: si specializzò in fisica nucleare e poi in fisica dei solidi, lavorò a Milano al Centro informazioni studi esperienze (Cise) e divenne docente di fisica all’Università Statale. «Faceva parte di quella categoria di grandi vecchi che sanno tutto: una mente lucidissima, fino all’ultimo», conclude Picciotto.
85 anni dopo la sua espulsione, Ascoli accettò l’invito della scuola di via Pisacane e tornò nell’aula da cui era stato cacciato nel ’38: ad attenderlo, fiori bianchi e un cartello “Bentornato Aurelio”. Ai bambini chiese una sola cosa: «Ragionate sempre con la vostra testa. Sempre. È quando si smette di farlo che accadono le mostruosità».

Daniel Reichel