IL PERSONAGGIO – Addio a Sir Tom Stoppard, sceneggiatore ebreo senza saperlo
Tom Stoppard, scomparso di recente, è stato uno dei più importanti drammaturghi, sceneggiatori, registi e scrittori del nostro tempo, autore di opere come Rosencrantz and Guildenstern Are Dead, Arcadia, The Coast of Utopia, nonché sceneggiatore di film come Shakespeare in Love. Nel 1997 è stato insignito del titolo di cavaliere da Elisabetta II e nel 2000 ha ricevuto l’Order of Merit, riconoscimenti che lo hanno consegnato definitivamente al canone della cultura britannica. E tuttavia la sua storia non comincia affatto lì. Per lungo tempo Stoppard ha vissuto come se la sua biografia iniziasse in Inghilterra, dove arrivò bambino dopo una fuga che aveva già cancellato luoghi, lingue e parenti. Nato Tomas Sträussler nel 1937 in Cecoslovacchia, passato per Singapore e l’India, divenne inglese per necessità prima ancora che per scelta. Quel cambio di nome, un nuovo inizio che la madre accettò per proteggere i figli, lo ha accompagnato a lungo mentre l’identità ebraica rimaneva sullo sfondo, un dettaglio astratto. Solo negli anni Novanta, quando una parente gli mostrò un albero genealogico fatto di nomi di persone scomparse, la distanza si è incrinata. «Eri completamente ebreo», una frase secca capace di riportarlo a una storia sopita, e alla scoperta che quasi tutta la famiglia era stata sterminata. Di quel passato Stoppard ricordava poco: la lingua ceca, perduta, e la vita precedente alla fuga di cui restava solo un insieme di frammenti dispersi. Quella consapevolezza, pur tardiva, ha cambiato il suo modo di guardare alla propria biografia e anche alla scrittura. Non un ritorno religioso né un recupero sentimentale, piuttosto una presa d’atto: non conoscere i propri avi significava non conoscere una parte di sé. «Sarebbe fuorviante pensare che, a quarant’anni, all’improvviso mi sono reso conto di essere membro di una famiglia ebraica. Certo, lo sapevo, ma non sapevo chi fossero», ha detto più volte. Negli anni successivi quel vuoto si è trasformato in una ricerca, discreta ma determinata, che avrebbe poi trovato una sua forma teatrale in Leopoldstadt, storia di una famiglia ebraica viennese segnata da assimilazione, ambizioni, paure e infine dalla Shoah. Non un gesto autobiografico, piuttosto il tentativo di restituire profondità a ciò che gli era stato sottratto. E verso la fine della sua carriera Stoppard riconosceva di non aver mai vissuto davvero «nel mondo degli ebrei», ma di avere sentito, lavorando accanto ad attori e registi ebrei, una sorta di risonanza, un’appartenenza recuperata per contatto più che per genealogia. In questo percorso zigzagante, fatto più di scoperte tardive che di certezze, sta forse la sua cifra più autentica, che traspare nella scrittura: ogni vita contiene strati rimossi, e riportarli alla luce può cambiare la direzione dello sguardo.