LIBRI – Luzzatto Voghera e una montagna luogo dell’anima
C’è qualcosa di diverso nella voce di Gadi Luzzatto Voghera: lo storico, il saggista, il direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano ha lasciato il posto a una persona diversa, ed è evidentemente emozionato mentre racconta del suo ultimo libro, intitolato All’ombra del Caregon di Dio, che l’editore Il Prato ha portato da pochi giorni in libreria. Il filo che unisce memoria, storia familiare e paesaggio, racconta Luzzatto Voghera, passa dalla montagna, luogo reale e insieme simbolico, presenza costante nella sua vita e parte della sua formazione: «È un libro che nasce da un lontanissimo e profondo amore per la montagna, che si è trasformato in nostalgia quando, sotto il Covid, eravamo tutti chiusi in casa. Così ho iniziato a scrivere ricordi, emozioni, sensazioni». Da quel primo moto interiore è uscita «una traccia lunghissima, ne ho quattordici versioni differenti», segno di una ricerca che non voleva fermarsi in superficie. Luzzatto Voghera lo riconosce apertamente: «Sono uno storico, un saggista, mettere in piazza le emozioni mie e di altri è una bella sfida» ma la decisione finale è arrivata con naturalezza «Mi sono detto che ne valeva la pena». A rafforzare questa scelta sono state anche le letture, in particolare dei molti libri che mettono al centro della riflessione storica, familiare e personale proprio la montagna. Un modello, o forse una conferma che si tratta di un ambiente naturale che è luogo della memoria e dell’identità, «un elemento che accomuna molte famiglie della media borghesia, in
generale, ma famiglie ebraiche in particolare». Da qui la decisione di proseguire, semplicemente «perché avevo cose da dire», spiega. «Il risultato è un libro sia di riflessioni personali sulla mia infanzia e sul significato che la montagna ha avuto nella mia infanzia, che nel ruolo di costruzione della mia identità, sia come giovanissimo che poi come adolescente, con molti riferimenti all’ebraismo, ai periodi trascorsi nei campeggi dell’Hashomer Hatzair, a esperienze anche molto diverse». In mezzo, sempre, un amore assoluto per le Dolomiti, «proprio il mio luogo», montagne conosciute non per virtuosismo tecnico ma come luogo di intimità quotidiana: «Le conosco molto bene, pur senza avere alcuna capacità particolare, sono per me veramente un luogo di costruzione identitaria». Accanto alla memoria personale si intrecciano tracce di esperienze, camminate e ascensioni conservate nel tempo, perché «mi sono ricordato cose ed emozioni che potevano avere un qualche valore, credo un po’ per tutti. Non mi piaceva tenermele per me». Chiamato dai valligiani “El caregòn de l’Padreterno”, o “El Caregòn de Dio”, il Monte Pelmo, che ha dato il titolo al libro, è una cima alta più di tremila metri, quadrata, che sembra la poltrona dalla quale Dio guarda il mondo. È divenuto cardine simbolico: «Il Monte Pelmo è in qualche modo il perno di tutto. Ci ho passato molto tempo attorno, davvero per tutta la mia vita, me lo rivedo ovunque, ne avevo la foto in camera, da ragazzo. È un po’ un secondo genitore». Attorno a quella montagna scorrono storie popolari, leggende, richiami musicali: «molta musica, che diventa un po’ la colonna sonora del libro, dalla musica tradizionale alle esperienze partigiane». E, soprattutto, continua, «dall’inizio alla fine c’è il rapporto con mio padre», racchiuso anche nell’eco della sua ultima intervista: «Mi ha molto emozionato. Non me la ricordavo, era il 2015 e proprio all’inizio spiegava che dovendo citare qualcosa che ancora lo emozionava allora il pensiero andava alla montagna e al suo rapporto con la montagna». In questo ordito di memorie trova spazio anche una riflessione sul presente, che compare nelle pagine del volume: «Un giorno ho detto basta. Non molto tempo fa. È accaduto per me in maniera naturale. Semplicemente non sono più attratto dall’idea di avere ai piedi degli attrezzi, di costringere i miei arti inferiori in scarponi da sci». Abbandonare lo sci non come rinuncia, ma come ritorno alla montagna più essenziale: «L’abbandono dell’attrezzatura credo abbia a che vedere con la necessità di stabilire un contatto fisico con la montagna anche in inverno». Camminare diventa ascolto: «Sto bene nei miei scarponi da montagna e con le ghette… Ascolto i miei passi, il metallo dei ramponcini che morde il ghiaccio e mi lega al terreno». Una pratica che consente di vedere l’inverno con occhi nuovi: «Quell’albero innevato, quella traccia di lepre, la pigna rosicata che è una traccia dello scoiattolo che cerco con il naso all’insù». La conclusione è semplice e radicale: «È questa la sostanza del mio rinnovato rapporto con la montagna d’inverno, ci sto bene. Sono io. Ora». All’ombra del Caregon di Dio è, nella sua misura intima, il racconto di un paesaggio che diventa storia familiare, di una montagna che si fa identità e memoria, di una voce che interroga se stessa senza indulgere alla nostalgia, cercando invece la verità dei gesti, dei passi, dell’aria sottile.
Ada Treves