SCAFFALE – Arnold Zweig manda l’antisionista De Vriendt in Palestina
Davvero da elogiare l’iniziativa dell’editore L’orma di Roma di pubblicare per la prima volta in italiano, col titolo Il ritorno di Isaak De Vriendt, il romanzo stoico di Arnold Zweig (da non confondere col più famoso Stefan) apparso per la pima volta quasi un secolo fa, in tedesco, col titolo Der Vriendt kehrt heim.
L’autore (1887-1968) fu un ebreo tedesco costretto, nel 1933, a emigrare in Palestina, pur essendo contrario al sionismo. Dopo il 1948, fu uno dei pochi ebrei tedeschi a scegliere di tornare nella Germania dell’Est, dove acquisì molto successo, appoggiato dal regime per le sue posizioni “pacifiste”, del tutto in linea con l’ortodossia del Partito comunista tedesco, che nel 1958 lo insignì del Premio Lenin per la Pace.
Il romanzo è ispirato a una vicenda reale, che è ricordata dallo stesso autore nella postfazione al volume: «Il modello per il protagonista del mio libro fu lo sventurato poeta e infelice uomo politico J.I. de Haan, assassinato a Gerusalemme nel 1924. A partire da quei mesi, per quasi otto anni, la sua figura ha abitato la mia immaginazione, benché, fino al mio arrivo in Palestina nella primavera del 1932, non sapessi di lui altro se non ciò che se ne poteva leggere sulle colonne dei giornali sionisti. La sua passionalità senza freni lo rendeva il candidato ideale per incarnare una figura di grande Antagonista per come la volevo creare».
Dalla figura di de Haan Zweig ricava quella del protagonista del romanzo, il Dottor De Vriendt, un ebreo ortodosso, poeta e giurista, di cui qualcuno, per motivi da scoprire, vuole la morte. Il controverso e multiforme personaggio è accusato di avere una relazione clandestina con un giovane arabo, ma è anche accusato per le sue posizioni fortemente ostili al sionismo, che, secondo lui, tradirebbe il vero spirito dell’ebraismo, riducendolo alla semplice costruzione di uno Stato-nazione.
Il libro si può e si deve leggere attraverso tre distinte chiavi di lettura.
La prima è quella, semplicemente, del romanzo. Da questo punto di vista, il racconto – che si può ascrivere al genere del “giallo” – si fa apprezzare per il ritmo incalzante, l’intensità narrativa, la pluralità dei piani di lettura. I personaggi appaiono descritti con grande capacità introspettiva, e la trama risulta originale e avvincente. Eccellente la traduzione in italiano di Eusebio Trabucchi. Un testo ben strutturato, intenso e godibile, anche se, a mio modesto avviso, non un capolavoro.
La seconda chiave di lettura è quella del documento storico riguardo agli ambienti e all’epoca in cui le vicende sono collocate, quelli della Gerusalemme del 1929 (ossia cinque anni dopo l’omicidio di de Haan). Il 1929, com’è noto, rappresenta un momento cruciale di svolta nella storia della Terra d’Israele, perché proprio in quell’anno scoppiarono i violenti pogrom arabi contro la popolazione ebraica, contro i quali gli inglesi non presero pressoché nessuna misura protettiva. I rapporti tra arabi ed ebrei, prima di quella data, non erano certo idilliaci, ma c’erano anche molti spazi di leale collaborazione, e anche la prospettiva di una possibilità di reciproco beneficio per entrambi i popoli. Da quel momento, invece, tutto cambia, e la diffidenza, l’ostilità, l’inimicizia diventano i tratti principali, e apparentemente irreversibili, dei rapporti tra le due comunità. Il romanzo tratta quindi del momento dell’inizio di una divaricazione, di un capovolgimento.
È quindi il racconto di un inizio (fu in seguito definito, dallo stesso autore, «il primo romanzo storico sullo Stato di Israele»), e suscita interesse in quanto tale. Anche se, quando di tratta di un “inizio”, tornano sempre utili le parole di Marc Bloch, che, nella sua Apologia dello storico, mise in guardia da quello che definì «l’idolo delle origini», spiegando che è sempre illusorio cercare negli inizi la spiegazione di quello che sarebbe avvenuto “dopo”. I rapporti di causa-effetto possono essere decifrati sempre soltanto dopo gli accadimenti, mai prima, “l’inizio” è sempre la rappresentazione di un percorso, o di una fine.
La terza e ultima chiave di lettura è quella della particolare posizione e prospettiva visuale dell’autore. La posizione di un ebreo tedesco, che si è trovato forzatamente a vivere in Palestina per semplici esigenze di sopravvivenza, e che non ha mai creduto nel sionismo.
Scrive Zweig, nella postfazione al volume: «Nella muta e irredenta realtà del destino [di de Haan], compiutosi otto anni fa a Gerusalemme, per me era contenuto un mandato; per me, e per nessun altro, altrimenti qualcuno avrebbe già saputo raccoglierlo e metterlo in atto. Con ogni evidenza, quel mandato significava: critica del nazionalismo moderno attraverso la critica del nazionalismo ebraico; critica del dopoguerra mondiale attraverso la critica del nostro dopoguerra ebraico».
L’antisionismo del protagonista del romanzo, quindi, è lo stesso dell’autore, che significativamente, quindi, sarebbe poi diventato un intellettuale organico al regime della Germania comunista. Anche questa è una testimonianza storica, di cui bisogna tenere conto. Israele è il frutto del sionismo, ma la sua storia è anche intrecciata con quella di molti ebrei che andarono in Palestina per costrizione o convenienza, ma che mai si riconobbero nell’ideale sionista. Una realtà, com’è noto, ancora attuale ai giorni nostri.
Francesco Lucrezi, storico