L’INTERVENTO – Disabilità e Bibbia: ciò che la tradizione ebraica dice davvero

Pubblichiamo un intervento del rabbino Roberto Della Rocca su disabilità e Bibbia. L’articolo era stato preparato in origine come replica a un pezzo apparso su La Stampa. Il quotidiano pubblicato a Torino non ha però mai dato spazio alla riflessione del rav, privando i lettori della possibilità di arricchirsi grazie a questo contributo. Lo pubblichiamo noi sperando di contribuire a fare un po’ di luce.
A tutti ancora l’augurio di Buon Chanukkah.

Nicoletta Verna, in un articolo dedicato alla disabilità (“Da diversi a uguali, una lunga storia”, La Stampa, 3 dicembre 2025), attribuisce con una improvvida disinvoltura all’Antico Testamento un’idea di disabilità come «colpa, come segno di distanza da Dio: l’imperfezione, più ancora della mortalità, ci allontanerebbe dall’Assoluto». Ma la tradizione ebraica – biblica e rabbinica – restituisce invece uno sguardo molto più articolato e inclusivo, spesso sorprendente per una civiltà così antica. Pur con norme inevitabilmente legate al contesto storico, il filo conduttore dei testi è la dignità intrinseca di ogni essere umano, “creato a immagine di Dio” (Genesi 1:26), senza eccezioni. Nella Bibbia ebraica la disabilità non è mai interpretata come colpa o punizione personale. Al contrario, essa diventa un elemento centrale nelle storie di molte figure a tratti antieroiche: Mosè, con la sua balbuzie; Isacco, che perde la vista; Giacobbe, che dopo la lotta rimane claudicante; e le matriarche, segnate dalle loro difficoltà di fertilità. In queste narrazioni, l’imperfezione umana non è stigmatizzata, ma riconosciuta come parte integrante di un cammino identitario. La storia di Mefiboshet, il nipote di Saul con una menomazione agli arti, accolto alla tavola del re Davide (2 Samuele 9), mostra chiaramente come imperfezione fisica e valore umano non siano in contrasto. Alcune prescrizioni del Levitico limitano l’accesso al servizio sacerdotale a chi presenta determinate imperfezioni corporee, ma senza implicare alcuna svalutazione morale: il sacerdote resta tale, conserva pieni diritti e dignità. Si tratta di norme rituali, non sociali. I profeti, inoltre, parlano di guarigione e sostegno ai deboli come responsabilità collettiva (Isaia 35), e il Salmo 145 ricorda che “l’Eterno sostiene chi è caduto”. Il Talmud amplia e approfondisce questi temi. I rabbini insistono sul divieto assoluto di umiliare chiunque, e affermano che le preghiere di chi soffre hanno un valore speciale agli occhi di Dio, poiché provengono da un cuore spezzato ma più vicino al divino (Berakhot 5b). La comunità è quindi obbligata a sostenere chi vive fragilità fisiche o sensoriali, garantendo accesso alla vita religiosa e sociale. Alcune categorie legali antiche, come quelle riguardanti sordomuti o persone con disabilità cognitive, riflettevano le limitate conoscenze dell’epoca, ma già allora i Maestri discutono casi concreti con grande attenzione alla persona.Anche la mistica ebraica contribuisce con una visione originale: ogni anima è integra e luminosa, a prescindere dalle condizioni del corpo. La vulnerabilità diventa parte del mistero della creazione e occasione di tikkùn, la riparazione del mondo.Nell’ebraismo contemporaneo queste intuizioni sono state reinterpretate alla luce della sensibilità moderna: sinagoghe più accessibili, scuole e movimenti giovanili inclusivi, autorità rabbiniche impegnate a rileggere i testi per garantire la piena partecipazione alla vita comunitaria. Le organizzazioni ebraiche lavorano per rimuovere e abbattere barriere architettoniche e culturali, ricordando che l’inclusione non è un gesto di carità, ma un autentico dovere etico e religioso. Lo testimonia il comandamento del Levitico 19,14 — «non maledire il sordo e non porre ostacoli davanti a chi non è in grado di vedere…» — che esprime con chiarezza la profonda sensibilità ebraica per la tutela e il rispetto verso le persone più vulnerabili. Non è forse un caso che il fondatore delle Paralimpiadi – giustamente celebrate da Nicoletta Verna – Sir Ludwig Guttmann, neurologo e dirigente sportivo, fosse di origine ebraica. Come lo era anche Janusz Korczak, pedagogista polacco, che dedicò l’intera vita al riconoscimento dei diritti degli emarginati e dei discriminati, a partire dai bambini.Se la Bibbia ebraica pone le basi della dignità, il pensiero rabbinico fornisce gli strumenti per tradurla nella pratica. Ne emerge una visione complessa, ma guidata da un principio chiaro: una società è fedele ai propri valori solo quando si fa carico di ogni sua parte, soprattutto della più fragile.Questa attenzione alla vulnerabilità è talmente radicata nell’ebraismo da riflettersi perfino nella centralità simbolica della luna. Nella coscienza ebraica la luna diventa un archetipo dell’individuo, richiamo costante alla possibilità di rinnovamento spirituale e psicologico. La sua fisionomia mutevole – mai piena a lungo, mai definitiva – indica una dimensione lontana da ogni trionfalismo. La sua incompletezza quotidiana diventa una forza, un’opportunità: Israele fonda anche su questa consapevolezza parte della propria identità.Non sorprende allora che chi ha tentato di sopprimere la continuità ebraica, in particolare l’ellenismo, si sia accanito contro tre precetti fondamentali: la scansione del tempo secondo la luna, l’osservanza del sabato e la circoncisione. Che cosa li accomuna? Tutti e tre accettano e valorizzano l’incompletezza e l’imperfezione: la luna nuova rappresenta il suo momento di massima diminuzione; il sabato sospende il fare produttivo, interrompe l’azione creativa e invita a riconoscere i limiti dei propri progetti; la circoncisione corregge, amputandola, un’anatomia completa, dichiarando apertamente che la perfezione non appartiene all’uomo. Tre vie, insomma, per accogliere la disarmonia del creato e l’imperfezione umana. Concetti difficili da accettare per l’etica greco-romana — cui si ispirano le Leggi delle Dodici Tavole citate dall’autrice, che non hanno alcun legame con la Tradizione ebraica — un’etica che vedeva nella perfezione fisica e nella compiutezza intellettuale il massimo ideale dell’umanità. L’ebraismo, al contrario, riconosce nella fragilità un tratto costitutivo dell’esperienza umana e un terreno privilegiato per costruire una società più giusta. Interpretazioni parziali e strumentali di una tradizione antica e complessa come quella ebraica rischiano di generare fraintendimenti, alimentando ostilità e pregiudizi. È invece auspicabile un approccio condiviso e rigoroso, capace di avvicinarsi alle fonti ebraiche come a un’autentica risorsa di comprensione e ispirazione, piuttosto che trasformarle in terreno di contrapposizione polemica.

Roberto Della Rocca, Rabbino e Direttore formazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(Nell’immagine: Janusz Korczak con i “suoi” bambini, nel monumento celebrativo di Varsavia)