Gli italkim, l’Italia e l’accademia israeliana
Il boicottaggio accademico contro Israele è tornato al centro del dibattito internazionale, ma raramente viene raccontato nelle sue implicazioni più profonde: quelle identitarie e culturali. Dietro le prese di posizione ufficiali e le petizioni di principio si nascondono esperienze personali, vissuti complessi e, in particolare, le voci di una comunità spesso dimenticata: gli italkim, gli ebrei italiani che hanno fatto aliyah in Israele mantenendo un forte legame con la lingua, la cultura e la memoria del proprio paese d’origine.
Per molti di loro, il boicottaggio non è solo un atto politico. È un gesto percepito come un secondo tradimento, dopo quello delle leggi razziali del 1938, quando l’Italia voltò le spalle ai suoi cittadini ebrei. Oggi, la sospensione o la minaccia di sospensione delle collaborazioni tra università italiane e israeliane riapre quella ferita storica in chi vive una doppia appartenenza italiana ed ebraica e la sente messa in discussione da chi non distingue più tra Stato, religione e individuo.
Quando istituzioni accademiche internazionali annunciano un boicottaggio verso partner israeliani, le conseguenze non restano sul piano simbolico: interrompono ricerche, scambi, relazioni umane costruite nel tempo. Gli accademici israeliani, tra cui molti italkim, vengono spesso etichettati come “colonizzatori” o “razzisti”, in un discorso pubblico che tende a cancellare le differenze e le sfumature. Eppure, la realtà dell’accademia israeliana racconta una storia diversa.
Durante l’anno accademico 2023/2024, nelle università israeliane hanno studiato oltre 290mila studenti, di cui circa 59mila arabi, musulmani, cristiani e drusi, in linea con la composizione demografica del Paese. Questi dati testimoniano un’inclusione crescente e un investimento continuo in politiche di affirmative action che contraddicono l’immagine di un sistema esclusivo o discriminatorio. Ma il boicottaggio ignora tali complessità, riducendo tutto a una contrapposizione ideologica: “ebreo = israeliano = complice”.
Per gli italkim, questa semplificazione è dolorosa. Significa sentirsi esclusi due volte: come israeliani nel mondo accademico internazionale e come italiani in un contesto che non li riconosce più come ponte culturale. Molti, soprattutto tra le generazioni più anziane, avvertono in questa chiusura un’eco della solitudine del 1938. Oggi, il silenzio di colleghi e istituzioni, più ancora delle dichiarazioni ostili, rappresenta per loro la forma più sottile di isolamento.
Eppure, l’accademia dovrebbe essere lo spazio per eccellenza del dialogo e della costruzione di fiducia. La sospensione dei programmi bilaterali, accentuata dopo il 7 ottobre, non è solo un danno scientifico o logistico, ma una frattura culturale che interrompe un percorso di conoscenza reciproca. Fino a poco tempo fa, decine di studenti israeliani partecipavano a programmi Erasmus in Italia, mentre docenti italiani collaboravano attivamente con colleghi israeliani. Queste reti, nate anche grazie all’Association of Italian Scholars and Scientists in Israel (AISSI), hanno contribuito per anni a mantenere vivo un legame accademico e umano fra i due Paesi. L’AISSI continua oggi a svolgere un ruolo essenziale, promuovendo progetti e occasioni di scambio anche in un clima difficile. La sua attività dimostra che il dialogo accademico non è un privilegio, ma una forma di resistenza culturale e identitaria. In un’epoca in cui prevalgono polarizzazioni e semplificazioni, mantenere aperto il confronto tra accademie è un atto politico nel senso più alto: significa affermare la fiducia nella conoscenza, nella complessità e nel rispetto reciproco. Gli italkim, con la loro identità ibrida e la doppia appartenenza, incarnano questa possibilità di mediazione. Essere al tempo stesso italiani ed ebrei in Israele significa vivere la pluralità come risorsa, non come contraddizione. Ma quando il boicottaggio colpisce, questa identità diventa fragile: ciò che era ponte rischia di trasformarsi in confine.
Per questo, è urgente che i media italiani ed ebraici restituiscano voce a queste esperienze, andando oltre la cronaca politica e mostrando le vite reali che il boicottaggio tocca. Dietro ogni firma, ogni sospensione, ci sono persone, famiglie, ricercatori che continuano a credere nella possibilità del dialogo. Il boicottaggio accademico, se non viene compreso nelle sue dimensioni umane, rischia di perpetuare un nuovo silenzio. Riconoscere il valore di chi, come gli italkim, vive tra due identità significa anche difendere l’idea stessa di università: un luogo dove la conoscenza non ha frontiere e dove il confronto rimane la più autentica forma di libertà.
Cristina Bettin, presidente Aissi