L’INTERVISTA – Cosa resta del femminismo dopo il 7 ottobre
Cosa resta del femminismo? Una domanda tutt’altro che retorica, se si considerano le trasformazioni influenzate dai cambi generazionali e dal contatto con altri movimenti, spesso più attenti ai temi della politica anche estrema che alle tematiche femminili/femministe. Una questione che, senza punto interrogativo, dà il titolo al volume edito di recente (Cosa resta del femminismo,Liberilibri, 136 pag., 16,00 euro), curato da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. La prima, femminista, ex deputata del Pd, attiva nella difesa dei diritti LGBT e delle questioni di genere, e la seconda, storica, giornalista e dal 2007 membro del Comitato per la Bioetica, hanno riunito gli scritti degli intervenuti al convegno I femminismi di fronte alla cultura woke (organizzato a Roma dalla fondazione Luigi Einaudi e dal Ministero della Cultura l’8 marzo scorso) stimolando una discussione di grande attualità.
Cosa resta del femminismo, dunque?
Lucetta Scaraffia: «Il passaggio giuridico che ha trasformato la violenza sessuale da “delitto contro la morale” a “delitto contro la persona” ha avuto grande rilevanza – anche simbolica e sociale – nella costruzione della libertà femminile. Ma bisogna riconoscere che oggi tra le donne c’è meno solidarietà, come ha dimostrato la mancanza di sostegno alle vittime degli stupri e dell’orrore del 7 ottobre. Sembra essere venuta meno l’universalità del femminismo, come se le donne non riuscissero più a difendere le altre donne».
Anna Paola Concia: «Io invece credo che il femminismo universalista sia ancora vivo e vegeto. Che si debba sostenere e aiutare la solidarietà tra le donne e non la selettività delle cause».
Questo vuol dire per esempio che il movimento transfemminista, innestato con tematiche transgender e impegnato per un radicale cambiamento sociale attraverso l’alleanza con altri movimenti, privilegia lo schieramento “anticolonialista” propal e le derive antisemite a scapito del sostegno alle vittime israeliane e isolando dai cortei le rappresentanti delle donne ebree?
L.S.: «Sì, questo è il pensiero woke, secondo il quale la colonizzazione subita dai palestinesi è più grave degli stupri subiti dalle donne israeliane. Del resto anche le violenze inflitte alle palestinesi vengono giustificate dal fatto che i loro uomini sono esasperati dalla guerra contro Israele e quindi riproducono le “antiche abitudini”».
A.P.C: «Il transfemminismo e il femminismo intersezionale (secondo i quali la lotta femminista deve essere inclusiva e affrontare la pluralità di ingiustizie ai danni delle donne, ndr) giustificano l’essere “primitivo” di quell’Islam che considera le donne meno di zero e lo stupro un atto concesso. Anche questo discende dalla cultura woke e crea il legame profondo tra i nuovi femminismi, i movimenti propal e certe forme di antisemitismo».
Perché sono così attraenti questi neofemminismi?
A.P.C.: Perché sono anticoloniali, antioccidentali, hanno la fluidità che la sinistra ha sposato e che fanno sentire le giovani generazioni “di moda”. Moderne. La loro politica è molto violenta, da nuove purghe staliniane. Teorizzano il “no debate”, quando nel femminismo storico il dibattito c’è sempre stato».
L.S.: Le giovani vogliono inventarsi un femminismo nuovo, ribaltando quello storico e spesso rifiutando lo studio della storia. Vogliono un femminismo politicamente corretto, sempre secondo l’ideologia woke».
A.P.C.: «E il 7 ottobre è stato l’episodio rivelatore del wokkismo. Quel silenzio delle neo femministe è stato il momento più basso. E non si è mai tornati indietro. Il silenzio è rimasto. Pensare che uno dei loro slogan è “Sorella ti credo”. Ti credo, purché tu non sia ebrea e bianca, perché le ebree vengono considerate l’aspetto estremo delle donne bianche. E questa è una delle aberrazioni dei neofemminismi».
Ma voi pensate che se Israele avesse mostrato le immagini del massacro del 7 ottobre il silenzio wokkista avrebbe vacillato?
A.P.C.: «Penso di sì. E credo che Israele, dal punto di vista della comunicazione, abbia fatto un errore a non mostrarle. Sarebbe stato importante. Anche se dal punto di vista umano è comprensibile che le famiglie abbiano chiesto di non farlo».
L.S.: «Io ho visto il filmato in ambasciata durante una serata per le donne giornaliste. Nulla è uscito all’esterno di quelle terribili immagini. A mio avviso, se fossero state mostrate nell’immediatezza del 7 ottobre, qualcosa sarebbe cambiato. Tra le tante scene terribili, ce ne è una in particolare che non dimentico. Non la più drammatica, ma è lancinante nella sua compostezza. Un camionista si ferma, vede delle sagome strane dietro agli alberi, si avvicina e trova donne abusate in ogni parte del loro corpo e semplicemente, mentre attende la polizia, cerca di ricomporle. Un gesto antico, pudico, rispettoso. Intanto, dai rapporti delle Nazioni Unite risulta che non ci sono prove sufficienti a dimostrare gli stupri avvenuti, se non per uno sparuto numero di casi».
Sara Levi Sacerdotti