MUSICA – Neve, slitte e nostalgia: i compositori ebrei dietro i classici natalizi

Da White Christmas di Irving Berlin, a Rudolph the Red-Nosed Reindeer di Johnny Marks, fino a Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow!, scritto da Sammy Cahn e musicato da Jule Styne. È sufficiente scorrere la colonna sonora del Natale americano per accorgersi che una cospicua parte dei suoi classici porta firme ebraiche. Al sito di cultura ebraica Aish, il compositore olandese Stephen Emmer prova a spiegare perché: «Scrivere musica malinconica e cercare di costruire un dialogo con un mondo in cui si è estranei è quasi nel Dna degli ebrei», soprattutto «in un periodo dell’anno in cui le persone si sentono particolarmente sentimentali e radicate nell’idea di casa». Emozioni che attraversano molte di queste canzoni, costruite più sul desiderio che sull’esperienza diretta. La natura non religiosa di gran parte del repertorio natalizio è sottolineata dal cantante e interprete americano Michael Feinstein: «Le canzoni natalizie popolari non parlano di Gesù, ma delle campane delle slitte, di Babbo Natale e degli ornamenti natalizi. Non sono canzoni religiose». Secondo Feinstein, proprio questa dimensione prevalentemente laica avrebbe permesso anche agli ebrei americani di partecipare, attraverso la musica, a una festività che altrimenti sarebbe rimasta estranea.
Tra gli esempi più noti ci sono The Christmas Song (“Chestnuts Roasting on an Open Fire”), musicata da Mel Tormé, nato a Chicago da genitori ebrei emigrati dall’Europa orientale, e Winter Wonderland del compositore ebreo Felix Bernard, nato Felix Bernhardt. Bernard scrisse la melodia nel 1934 per il testo del paroliere Richard B. Smith. La canzone ebbe un successo immediato, diventando uno dei simboli musicali del Natale americano, pur priva di riferimenti religiosi.
Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! fu scritta nel 1945, durante una violenta ondata di caldo a Los Angeles. I suoi autori, Sammy Cahn e Jule Styne, entrambi ebrei e figli di famiglie emigrate dall’Europa orientale, si ritrovarono a immaginare neve e freddo per sfuggire all’afa californiana. Cahn, nato Samuel Cohen a New York, aveva iniziato la sua carriera suonando il violino nelle orchestre che animavano bar mitzvah e feste comunitarie. Styne, nato Julius Stein a Londra da genitori ebrei ucraini, era stato un bambino prodigio del pianoforte prima di trasferirsi negli Stati Uniti. La canzone racconta un Natale domestico e intimo, costruito attorno al desiderio di stare insieme al riparo dal mondo esterno, senza alcun riferimento religioso esplicito.
Rudolph the Red-Nosed Reindeer viene pubblicata nel 1949 ed è firmata da Johnny Marks, cresciuto in una famiglia ebrea laica di New York. La canzone è basata su una storia in rima ideata alcuni anni prima dal cognato di Marks, Robert May, che lavorava per la catena di grandi magazzini Montgomery Ward. May aveva creato il personaggio di Rudolph nel 1939, attingendo alla propria esperienza di ragazzo timido ed emarginato. La storia racconta di una renna esclusa dal gruppo a causa del suo naso luminoso, che diventa indispensabile solo nel momento del bisogno. Trasformata in canzone, la vicenda di Rudolph entra rapidamente nel repertorio natalizio d’Oltreoceano.

Il singolo più venduto di tutti i tempi
Ma il caso più celebre è White Christmas. Scritta nel 1941 da Irving Berlin, nato Israel Beilin in Russia ed emigrato negli Stati Uniti da bambino, la canzone nasce da una biografia segnata dalla povertà e dalla perdita. Berlin cresce nel Lower East Side di New York in una famiglia ebraica poverissima: il padre, cantore e insegnante di ebraico, muore quando Irving è adolescente, costringendo i figli a lavorare per contribuire al sostentamento familiare. Segnato da lutti profondi, tra cui la morte di un figlio avvenuta proprio il 25 dicembre del 1928, Berlin associa il Natale a un sentimento di malinconia più che di festa. Nel volume Irving Berlin: New York Genius, lo storico e biografo James Kaplan definisce White Christmas «una canzone profondamente triste», che «in definitiva parla della perdita». Secondo Kaplan, il brano è «un sogno di un passato perduto, un’esperienza ideale, un desiderio intenso, una nostalgia», e proprio questa dimensione emotiva ne spiega la forza duratura. Incisa da Bing Crosby e inserita nel film Holiday Inn del 1942, la canzone diventa il singolo più venduto di tutti i tempi. Come nota Kaplan, Berlin «era un ebreo immigrato che veniva dal nulla, cresciuto per strada, ma con un talento straordinario per il linguaggio popolare, capace di intercettare il sentimento collettivo e trasformarlo in musica». 

(Nell’immagine, Irving Berlin al pianoforte)