CINEMA – L’Orso d’oro azzanna il potere e i suoi simboli

Diciamolo subito, come se fossero le avvertenze di un farmaco che può avere molte controindicazioni: Yes (Ken), il nuovo film di Nadav Lapid presentato al Festival del cinema di Cannes, poi a quello di Gerusalemme, e a fine ottobre alla Festa del Cinema di Roma, è un film controverso, in grado di infastidire molti lettori di questa testata. È un film dirompente, intenzionalmente provocatorio, eccessivo nei temi e nel linguaggio e allo stesso tempo compiaciuto di esserlo. Pensato prima del 7 ottobre, la sua sceneggiatura è stata poi modificata per includere i nuovi temi. Lapid è un regista affermato: nel 2011 ha vinto il Premio della Giuria a Locarno con The Policeman; nel 2014 ha partecipato alla Semaine de la Critique di Cannes con The Kindergarten Teacher; Orso d’oro alla Berlinale nel 2019 con Synonims e Premio della Giuria a Cannes nel 2021 per Ahed’s Knee.
Il nuovo film è caratterizzato da una recitazione sopra le righe, da una macchina da presa in continuo movimento, da un linguaggio onirico e un montaggio a volte convulso. Mira a coinvolgere il pubblico nel disagio del regista, più che a presentare lo svolgimento di un racconto secondo i canoni tradizionali.
«Penso che spesso la macchina da presa abbia catturato l’emozione della scena, più che le cose» commenta Lapid. «Nel cinema tradizionale viene costruita una sequenza di nove minuti per far dire a qualcuno, alla fine, la frase “Ti amo”. Ecco, io voglio filmare direttamente l’amore». La storia è quella del musicista Y., noto solo con l’iniziale del nome, (Ariel Bronz, esordiente al cinema), che frequenta feste altolocate e sfrenate in Israele insieme alla moglie Jasmine (Efrat Dor, serie tv Sneaky Pete) ed è al servizio dei potenti.
Dopo il 7 ottobre, gli viene chiesto di comporre un nuovo inno nazionale che celebri l’annientamento del nemico. Il protagonista è combattuto fra il riconoscimento di una realtà da cui vorrebbe evadere e la frenetica rincorsa verso l’affermazione sociale, il successo, la felicità. Y. è un alter ego del regista, che riflette sul ruolo dell’artista e il rapporto con il potere. «In alcuni film precedenti, i miei protagonisti erano caratterizzati dal “no”» racconta Lapid, che spiega come sia possibile passare da una fase di opposizione a una di accettazione sottomessa: «Mi sono reso conto, anche in seguito alla nascita di mio figlio, che dire sempre “no” non è sano. Inizi per dirlo al governo e finisci per dirlo a tutti, anche al tuo vicino di casa, alla vita, all’amore, a tutto. Che cosa conviene lasciare in eredità, l’idea di un mondo che è destinata a rimanere un’utopia, crescendo un figlio come Don Chisciotte? Oppure fare in modo che si integri in un mondo che non è perfetto e spesso è terribile, ma è anche il solo che esiste?».
Il film non risparmia critiche all’establishment israeliano, la narrazione classica dello Stato ebraico viene ripetutamente ribaltata di significato e svuotata di senso. Le istituzioni appaiono dirette da potenti oligarchi russi, che fanno spuntare un grattacielo – una torre di Babele? – dal terreno con un semplice telecomando. Durante il Giorno dell’Indipendenza, l’hostess che accoglie gli ospiti sullo yacht dei governanti cita elementi dell’identità nazionale in modo estraniante, interpretandoli come una cantante lirica. La continua presenza della bandiera israeliana in tutti i contesti mira a denunciare la retorica dei governanti e a svuotarla di senso. Yes non parla solo di Israele ma riguarda anche temi più universali e tuttavia rischia di essere strumentalizzato dal pubblico europeo che cerca nel film un’ulteriore occasione per criticare Israele. «Non posso condizionare le mie scelte creative al timore di come l’opera sarà interpretata » osserva il regista.
Alcune sue scelte espressive hanno portato a contestazioni a livello governativo, nonostante la pellicola sia stata finanziata dall’Israel Film Fund. Lapid racconta di forti pressioni perché il suo lavoro non fosse presentato al Jerusalem Film Festival, dove è stato proiettato ugualmente. Miki Zohar, ministro della Cultura, ha criticato aspramente la candidatura di Yes per gli Ophir Awards, insieme a quella di Oxygen e The Sea (già recensiti sul numero di agosto di Pagine Ebraiche) in occasione del JFF).
Paradossalmente, anche Yes, che è molto critico nei confronti della società israeliana, è stato oggetto di un tentativo, fallito, di boicottaggio a Roma da parte di Venice4Palestine e altre associazioni.
Il film contiene anche una delle sequenze più efficaci sul 7 ottobre: il protagonista Y. è in viaggio in macchina verso il confine con Gaza, con la sua ex Leah (Naama Preis, God of the Piano, 2019), per trovare ispirazione alla scrittura e motivazione per realizzare l’inno. Le chiede allora quale sia il suo dolore e quando la donna gli inizia a raccontare i piccoli rimpianti personali, lui la sollecita a parlare del “dolore vero”. In un monologo sempre più veloce e in crescendo, Leah ripercorre allora, enunciandoli, senza mostrarli, gli episodi più orribili del massacro del 7 ottobre.

Simone Tedeschi