7 OTTOBRE – Il filo scarlatto di Shani

Da due anni Michal, la figlia Nitzan e tutta la famiglia Gabay combattono la rabbia e il vuoto, anche se continuano a far parte del loro quotidiano. «Dentro di me c’è una rabbia enorme, ma cerco di non alimentarla: se cado dentro quel baratro, smetto di fare memoria e di costruire. Ma la mia e la nostra priorità è trasmettere chi era Shani, trasmetterne la lezione», afferma con decisione Nitzan, oggi ventitreenne.
Assieme alla madre Michal è venuta a Milano per raccontare ancora una volta il loro 7 ottobre 2023. Quando parla non abbassa mai lo sguardo, gli occhi azzurri fissi sull’interlocutore mentre spiega perché la sua famiglia insiste da due anni nel girare Israele e il mondo per testimoniare: «Non vogliamo entrare nella politica né concentrarci su “chi è il colpevole”: la nostra missione è trasmettere chi era Shani e propagare la sua luce. Per questo abbiamo messo da parte tutto, anche il lavoro, per dedicarci a lei». Shani viveva con la sua famiglia a Yokne’am, nella Galilea. Aveva 25 anni, una laurea in giurisprudenza appena conquistata, la passione per i cani e per il mare, un carattere solare riassunto nel motto che ripeteva agli amici: «No time for drama ». La mattina del 7 ottobre 2023 si trovava al festival Supernova, nel deserto del Negev, dove lavorava alla sicurezza. Alle 6:37 arriva il primo messaggio a Michal: «Mamma, la terra trema! Ci sono terroristi ovunque». Inizia la fuga disperata. Shani si rifugia con gli amici Ben e Gal, ma il nascondiglio viene colpito dalle granate: i due muoiono, lei resta ferita a una gamba. Nonostante il dolore riesce a salire in auto. Lungo la strada sveglia un ragazzo addormentato in macchina e lo spinge a scappare, salvandogli la vita. Poco dopo incontra altri giovani e indica loro una via di fuga. Alle 8:53 chiama ancora la famiglia. Poi più nulla.
Per 47 giorni Michal ha pregato che la figlia fosse ostaggio e non tra i morti. La verità arriva con le analisi del Dna: Shani aveva trovato rifugio in un’ambulanza abbandonata con altri venti ragazzi. I terroristi spararono raffiche di mitra e poi un Rpg che distrusse il mezzo. Diciotto giovani morirono bruciati, solo due riuscirono a fuggire. I corpi, fusi dal calore, non furono identificabili subito: Shani venne sepolta per errore con un’altra vittima, fino al riconoscimento definitivo. «Il 7 ottobre ha diviso la nostra vita in due: prima e dopo», racconta Michal. «Tutta la casa soffre di post-trauma. Cerchiamo di curarci, ma il percorso è lungo. La nostra forza è parlare di Shani, tenerla con noi». Il legame familiare è diventato più saldo. «Siamo uniti e ci sosteniamo», spiega Nitzan. «A casa però cerchiamo di parlare meno di lei, perché rischia di schiacciare tutti. Preferiamo raccontarla fuori, negli incontri e nelle conferenze». In segno di memoria, madre e figlia hanno tatuato il volto di Shani sulla pelle. «Per noi non appartiene al passato», sottolinea Michal. «È come se fosse in viaggio e dovesse tornare ». Con il padre Yaakov e il fratello maggiore Aviel hanno fondato l’associazione Chut HaShani – Il filo scarlatto. L’associazione prosegue le passioni di Shani: giornate di adozione per cani, pulizia delle spiagge, aiuto a famiglie bisognose. Tra i progetti, anche un’ambulanza che porta il suo nome: «Un’ambulanza deve portare vita, non toglierla», ripetono.
L’eredità di Shani vive anche attraverso due motti diventati bandiere della famiglia: «No time for drama» e «La vita non sarà mai una festa se non la festeggi, anche senza motivo». «Sono parole che ci aiutano a resistere», spiega Nitzan. «Quando il dolore ci schiaccia, pensiamo a lei e diciamo: niente drammi, viviamo come avrebbe voluto». A Milano hanno trovato l’abbraccio della Comunità ebraica e di una sinagoga centrale gremita ad ascoltarle. «Per noi incontrare le persone è fondamentale e quando qualcuno ci confida di aver preso forza dall’esempio di Shani, sentiamo che non è andata via invano». La rabbia resta, soprattutto quando qualcuno mette in dubbio il 7 ottobre. «Se è tutto finto, se i video sono creati con l’intelligenza artificiale, dov’è mia figlia? Perché non è accanto a me?», domanda Michal. Restano i “se”: se fosse rimasta nel rifugio, se avesse preso un’altra strada. Ma concedersi al rancore significherebbe «tradire la sua memoria».
Con i vicini palestinesi la ferita è aperta. «Non riusciamo a provare compassione per chi ha varcato i confini quel giorno», ammette Nitzan. «Non erano solo terroristi armati: anche civili. Non so chi abbia ucciso mia sorella o i miei amici. Come possiamo parlare di pace, quando pensi che chiunque dall’altra parte potrebbe essere stato l’assassino che ha sparato contro quell’ambulanza?». Per il futuro le Gabay guardano a Israele. Nella quotidianità, nulla è tornato come prima. Nessuno in famiglia ha ripreso a lavorare. «Non riuscirei a concentrarmi, a trovare un senso », confessa Michal. Il sostegno economico arriva dallo Stato per le cure psicologiche, ma soprattutto dalla solidarietà popolare: «In Israele la gente si è mobilitata con raccolte fondi straordinarie».
Da qui lo sguardo si allarga al paese. Madre e figlia ribadiscono la loro fiducia in Israele e nel popolo ebraico. «Il trauma ci ha uniti», conclude Nitzan. «Dopo il 7 ottobre abbiamo visto una solidarietà incredibile. Non importa se sei di destra o di sinistra: quando c’è un’emergenza, tutti si muovono. Questa unità è ciò che ci dà speranza».

d.r.

(Nell’immagine in alto, il progetto di una scuola del kibbutz di Ramot Menashe in memoria di Shani. In basso, Michal Gabay con una foto di Shani durante un evento in sinagoga a Milano. Alla sua sinistra, la figlia Nitzan)