CULTURA – A Haifa il Museo degli Yekkes
«Che cos’è esattamente uno Yekke? Uno Yekke è qualcuno che dice: “Sarò lì domani alle 8”, e si presenta il giorno dopo alle 8». Questa barzelletta, consultabile nel tavolo tattile interattivo del “Museo degli Yekkes” di Haifa, restituisce in un sorriso quella miscela di ironia e stereotipo che per decenni ha accompagnato gli ebrei tedeschi immigrati in Palestina. Rigidi, formali, pignoli, impeccabili persino nel caldo del Levante: così li vedevano i pionieri dell’Yishuv, e con quel nome – Yekke, da jacke, “giacca” – li congedavano con sufficienza.
Oggi la parola riappare nel nome dell’ala del Museo Hecht dell’Università di Haifa dedicata all’ebraismo di lingua tedesca. L’ala, inaugurata di recente, ospita opere, arredi, fotografie e oggetti personali donati dai discendenti dei profughi provenienti da Germania, Austria e Cecoslovacchia. «È difficile pensare a un’altra comunità che abbia avuto un impatto così profondo sulla nostra società», ha spiegato a Haaretz Inbal Rivlin, direttrice del museo. E ancora: «Ci sono tanti musei sulla Shoah e non era nostra intenzione competere con loro. In realtà, questo progetto è nato grazie a coloro che sono riusciti a fuggire in tempo, un tributo al loro patrimonio culturale».
All’ingresso, una grande fotografia in bianco e nero mostra una coppia in abiti eleganti, valigie in mano, in una landa desolata: un’immagine pensata per evocare il primo impatto con la Palestina mandataria. Subito dopo, la ricostruzione di una capanna di Nahariya introduce ai primi anni degli immigrati; accanto, la replica di un salotto borghese tedesco mette in dialogo due mondi distanti per abitudini e stile di vita, racconta Haaretz. Tra i reperti figurano un baule guardaroba con asse da stiro incorporata, una miniatura lignea di città, un banco scolastico trasportato dalla Germania, opere d’arte e oggetti rituali. Il tavolo interattivo espone fotografie, ricette e una raccolta di barzellette come quella citata.
Il museo è l’esito di un percorso iniziato nel 1968 a Nahariya, quando Israel Shiloni fondò il primo Museo dell’ebraismo di lingua tedesca. Nel 1991 Stef Wertheimer ne promosse il trasferimento a Tefen, nell’Alta Galilea, dove rimase per trent’anni fino alla chiusura nel 2021. Il passaggio a Haifa permette oggi agli studiosi dell’università di lavorare a stretto contatto con l’archivio e con le collezioni. «Si tratta essenzialmente di un incontro tra due eminenti Yekkes», osserva Rivlin a Haaretz, riferendosi a Wertheimer e a Reuben Hecht, due industriali e figure centrali della vita economica israeliana.
Come ricorda il Museo del Popolo Ebraico di Tel Aviv, nel 1933 in Germania vivevano circa mezzo milione di ebrei. Nei primi anni dopo l’ascesa di Hitler, circa 300mila riuscirono a lasciare il paese; la maggior parte trovò rifugio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, mentre circa il 10% si insediò nella Palestina mandataria. Nello Yishuv – l’insediamento ebraico che costituì la base del futuro Stato d’Israele – i nuovi arrivati furono accolti con sospetto, talvolta con ostilità: i giornali in lingua tedesca vennero ostacolati, le vetrine e le insegne dei negozi germanofoni rimosse e associazioni a difesa dell’ebraico fecero pressione affinché il tedesco venisse abbandonato.
Lo storico Tom Segev, nel libro Il settimo milione (Mondadori), descrive le tensioni nate dal confronto fra la cultura tedesca e quella pionieristica dei sabra sottolineando come gli Yekkes si percepissero depositari di una grande tradizione filosofica e musicale – da Kant a Beethoven – e al tempo stesso sentissero il peso di essere arrivati dopo gli Ostjuden, gli ebrei dell’Est Europa, già radicati sul territorio. «Hanno sia un complesso di superiorità che di inferiorità», scrive Segev.
Nel percorso espositivo di Haifa, questa storia è narrata attraverso oggetti personali, documenti familiari e testimonianze visive. La sezione centrale è dedicata alla Aliyah degli anni Trenta e al contributo degli Yekkes alla costruzione del paese. Oltre alla mostra, finanziata anche da Germania e Austria, il museo è oggi un polo di studio e conservazione del patrimonio della comunità germanofona. Un’istituzione che racconta anche l’evoluzione del termine Yekke: da soprannome pungente a definizione identitaria.
Una trasformazione già avviata da tempo, come mostra un episodio del 1979, quando un israeliano nato in Germania si rivolse alla Corte Suprema sostenendo che “Yekkes” fosse un appellativo offensivo e chiedendo che ne fosse limitato l’uso pubblico. Tra i giudici c’era Haim Cohen, anch’egli di origini tedesche: respinse il ricorso, osservando che quella parola apparteneva ormai alla memoria della comunità e non costituiva motivo di offesa.
d.r.