Discorso del Consigliere Dario Calimani

‘Giorno della Memoria’: discorso del Consigliere Dario Calimani alla manifestazione
tenutasi presso l’Università di Venezia.

27 gennaio 2005

Una memoria non negoziabile.

Per decenni se n’è parlato quasi esclusivamente fra studiosi e specialisti della materia. Non se n’è parlato a scuola: i programmi si fermavano, nel migliore dei casi, alla prima guerra mondiale; se ne parlava molto poco nei corsi universitari. Poi, all’improvviso, si è cominciato a dire che bisognava saper guardare avanti, senza che mai si fosse avuto il coraggio di guardare, prima, indietro, dentro alla ferita. Non è senza imbarazzo che l’ebraismo sta vivendo, ora, questa spinta, anche istituzionalizzata, dell’occidente a condividere la memoria, quasi a mo’ di tardiva riparazione. Vien fatto di chiedersi da dove provenga questa nuova sensibilità. Si è persino tentati di nutrire qualche indicibile, pessimistico sospetto.

E l’imbarazzo è dato proprio dal lungo silenzio che alla Shoah è stato dedicato per decenni. Dal bavaglio che tutti si sono messi e hanno messo alla Shoah. Non è un caso che, per molto tempo, molti fra i pochi sopravvissuti ai campi di sterminio si siano sentiti colpevoli di essere ritornati, e colpevoli di ricordare. Non sono rari i casi di coloro che l’hanno tenuto nascosto anche ai propri figli, vergognandosi di una colpa che non era loro. Si sentivano colpevoli di parlare di una cosa che gli altri preferivano tacere, per non turbare l’equilibrio della rappacificazione.

E l’imbarazzo dell’ebraismo, ora, è quello di sentirsi messo al centro dell’attenzione per un merito che vorrebbe non essere in grado di rivendicare: quello di essere stato oggetto di un ben riuscito esperimento di genocidio su scala europea.

Ha certamente i suoi lati positivi il fatto che, a distanza di tanto tempo, l’Europa e la civiltà occidentale cerchino di elaborare, attraverso la memoria, un lutto così a lungo taciuto, ridimensionato, quando non addirittura negato. Soprattutto in un momento di antisemitismo rimontante. Non si presta molta attenzione, ad esempio, al fatto che, da qualche anno, migliaia di ebrei hanno cominciato a emigrare dalla Francia per sfuggire ai continui episodi di antisemitismo. Non troppa importanza si dà al rimontante odio antisemita dei movimenti neonazisti in Germania. L’antisemitismo in Austria si continua a fingere che non sia mai esistito e nessuno ha, né ha mai avuto, intenzione di affrontare l’argomento.

Ma è un impegno, questo della memoria, che ha almeno due controindicazioni: la prima, che, ricordando l’ebreo come vittima della società, lo si trasforma in pungolo per la stessa, alimentandone il fastidioso senso di colpa. E la società, spinta dalla giusta aspirazione a vivere serena, cerca di liberarsi da questo senso di colpa, ricorrendo a qualche contorsione intellettuale, magari rimproverando all’ebreo tout court una qualche colpa attuale che controbilanci quella macchia ormai lontana dell’occidente; potrebbe prestarsi bene allo scopo il sostegno degli ebrei della Diaspora allo Stato d’Israele, o un dibattito sulla politica israeliana, per controbilanciare il genocidio di ieri con la disgraziata politica mediorientale di oggi. O anche meno, una considerazione sulla macellazione rituale che mostri l’innata disposizione sanguinaria dell’ebreo, com’è avvenuto in questi giorni ad opera di un cosiddetto collega dell’Università di Cagliari. Forme di antisemitismo neppure tanto velato; un sentimento tanto antico e radicato da inibire l’uso corretto della ragione e di condivise categorie del pensiero.

La seconda controindicazione a questo ritorno improvviso della memoria vale per l’ebreo stesso, che rischia di veder trasformato il suo ebraismo, la sua cultura e i suoi valori, in una religione della Shoah. Una cultura che rischia di concentrarsi sulla mitizzazione del negativo e della tragedia, e sulla monumentalizzazione di sé e del proprio genocidio. L’ebreo non più come cittadino che si integra culturalmente e offre alla società, come ogni essere umano e ogni altro cittadino, il proprio contributo di azione o di intelligenza, ma l’ebreo come puro oggetto di pietà, generalizzato e simbolizzato, trattato come una categoria a sé.

In entrambi i casi, si prova la tentazione di riparare silenziosamente dietro le quinte. Oltretutto, la condivisione della memoria, a cui ha aderito di recente chi storicamente o politicamente si trovava dall’altra parte, sembra voler appiattire le differenze, equiparare torti e ragioni, vittime e carnefici, e finisce per annullare i valori; pareggia una volta per tutte i conti. Ma ci si chiede se la condivisione della memoria sia utile a sanare la ferita aperta da un crimine contro l’umanità. Sarebbe forse naturale aspettarsi il riconoscimento delle responsabilità da parte di chi rappresenta o si identifica con una certa ideologia, ma non dovrebbe sorprendere che chi ha subito il male volesse mantenere aperta la ferita, per continuare a ricordarla, e a trasmetterne il ricordo, con tutto il suo dolore, senza rinnegare i massacrati. Chi ha subito il male ha il diritto di assegnare una precisa identità all’altra parte e ai mostri ideologici, ha il diritto di dichiarare la propria opposizione ai valori di discriminazione e di morte che quella parte ha incarnato. Quando la memoria della Shoah sarà diventata proprietà di tutti non vi sarà più nessuno a cui rimproverarla. Più nessun responsabile, più nessun colpevole. La Shoah sarà stata un mero incidente della storia.

La cosa sorprendente, poi, è che spesso in questi anni, e anche di recente, il peso della colpa è stato riversato sulle vittime. E ciò, come non bastasse il fatto che colui che è stato vittima portava già la colpa assurda di essere stato vittima, di non aver potuto scegliere il proprio destino, di essere rimasto inerme; e la colpa di essere sopravvissuto; e spesso di aver scoperto solo all’improvviso il proprio ebraismo, per merito dell’antisemitismo; e la colpa di essere tentato dal desiderio di cancellare il ricordo. E poi, la colpa peggiore, quella di continuare a ricordare malgrado tutto, e di non poter fare a meno di opporsi all’oblio.

Se la Shoah è la macchia di ieri sulla coscienza dell’Occidente, che dalla Shoah l’ebreo sia uscito più colpevole che mai ne è la macchia di oggi. L’ebreo, colpevole, in ogni caso, per la memoria che ne porta. Responsabile, anche, verso se stesso, per essere custode del ricordo; con il rischio di feticizzarlo; di falsarlo: di non saper distinguere fra l’evento, il ricordo originale dell’evento, e il ricordo che si tramanda del ricordo ricevuto. Il rischio, per tramandare la memoria, di diventarne inconsapevoli falsari.

Come se questo non bastasse, alla vittima si è rimproverato di non permettere, con la sua testimonianza, un tanto auspicato oblio; di pretendere che venisse riconosciuta, anzi, l’unicità del crimine della Shoah, e le molteplici responsabilità, e i troppi silenzi. Così, l’ebreo, sterminato perché colpevole di essere ebreo, torna a essere paradossalmente colpevole perché ricorda di essere stato sterminato. Non è raro sentire affermare che anche gli ebrei sanno fare i nazisti, come se un assolutamente argomentabile giudizio sulla politica israeliana potesse giustificare l’annullamento dell’ingombrante memoria della Shoah, forse la tragedia più rimproverata a chi l’ha subita.

Il prezzo più devastante richiesto dalla Shoah e dalla sua memoria è proprio, alla fine, questa centralità che essa si è sventuratamente guadagnata nella storia ebraica. Compito del mondo occidentale è riconoscerne le responsabilità; dovere lacerante dell’ebraismo è liberarsi dalla contingenza del dolore per trasmettere il proprio dramma alla categoria della memoria storica.

Se a sessant’anni da Auschwitz si continua a scrivere, a dire e a commentare la tragedia è proprio perché la nostra civiltà non ne ha accettato appieno la responsabilità. È ancora necessario opporsi agli “assassini della memoria” (P. Vidal-Naquet) e contestarne le contestazioni, le riduzioni, le negazioni, e qualche demagogico accostamento.

Purtroppo, tuttavia, la storia è memoria altrettanto di quanto essa è oblio. I tentativi di rimozione, quando non di negazione e falsificazione, non sono affermazioni, ma domande a cui è dovere non negare mai una risposta. Riconciliarsi con il passato significa innanzitutto riconoscerne l’attualità e la presenza, e la presunta “menzogna di Auschwitz” continua ancora ad agitare il nostro presente. Per questo non si riesce a smettere di chiedersi come “pensare Auschwitz”, come “insegnare Auschwitz”. Parlarne e scriverne è, con tutti i possibili limiti e rischi, l’unica alternativa ai vari percorsi dell’oblio, l’argine al dissolvimento della memoria storica.

Eppure, più aumentano i contributi nel dibattito sulla Shoah più si rischia la saturazione. E ci si chiede se si potrà continuare a parlarne senza che gli altri si stanchino di ascoltare.

C’è un oblio che opera “per sovrabbondanza o interferenza” (U. Eco); “non si dimentica per cancellazione – chiosa Paolo Rossi -, ma per sovrapposizione, non producendo assenza, ma moltiplicando le presenze”. L’accumulo di testimonianze e discussioni sulla Shoah rischia di farla diventare una consuetudine; d’altro canto, l’infinita lista dei crimini dell’umanità fa rientrare tristemente nella norma ogni nuovo massacro e, insieme, consegna all’oblio ogni passato sterminio, senza permettere troppi distinguo.

Ma questo esilio dell’umanità che ha isolato l’ebraismo rivendica il diritto alla differenza, alla memoria separata. È vero: “è più facile strappare un ebreo all’esilio che non strappare l’esilio dall’animo dell’ebreo”. È anche la memoria a nutrire l’esilio, a coltivarlo, a mantenere vivo il senso di appartenenza sradicata.

E, a questa idea dell’esilio, l’ebreo finisce per affezionarsi assurdamente, soprattutto nei momenti più tenebrosi, confidando, per la salvezza della propria mente e del proprio spirito, nell’unica arma a disposizione: lo humour, anche amaro, che lo tiene, malgrado tutto, ancorato alla speranza:

Vienna 1939. Un ebreo entra in un’agenzia di viaggi e chiede all’impiegato un biglietto.

“Per dove?”, chiede l’impiegato.

“Mi faccia vedere il mappamondo”, dice l’ebreo, e comincia a esaminare il mappamondo e a indicare un paese dopo l’altro. Ma la risposta dell’impiegato è ogni volta più disarmante: “Per questo paese ci vuole il visto…”, “Questo non accetta più ebrei…”, “Per entrare in questo c’è una lista d’attesa di sei anni…”.

Alla fine, l’ebreo guarda sconsolato l’impiegato e gli chiede: “Sia così gentile, non avrebbe un altro mondo?”

L’esilio della memoria tocca anche il problema della storicizzazione della Shoah: se catalogare la Shoah come un evento “normale”, quasi prevedibile, della Storia o, al contrario, come un momento irrazionale che trascende la Storia.

La visione storica, che dà coscienza del grado di disumanità a cui può arrivare l’uomo, rischia anche di appiattire la portata del genocidio ebraico relativizzandolo nel banale, disconoscendone tristi specificità quali l’aspetto “etnico/razziale” dello sterminio, la preparazione ideologica ufficialmente propagandata e messa in atto da uno Stato, la meditata attuazione scientifica, e su scala continentale.

Peraltro, la considerazione della Shoah come evento unico, pur mostrandone l’enormità e la barbarie impareggiabili, la dichiara, per contro, imprevedibile, un incidente della storia, e non invece il risultato di una scelta razionale, scientificamente studiata e applicata. La mitizzazione della Shoah le conferisce il segno della fatalità, o della predestinazione. Rischia di rimanerne sacrificata una possibilità di analisi delle cause e delle condizioni. E così l’uomo e la società, giustificati dall’irrazionale, sembrano esenti dalla corresponsabilità dell’orrore; e la Shoah, un evento estraneo al nostro tempo e al nostro spazio.

La Shoah rimane così sospesa in un’aporia che qualifica bene la difficoltà di confrontarsi con la realtà impensabile e inesprimibile che, nel bel mezzo della civile Europa, è stato il genocidio di un popolo in quanto tale.

E’ difficile, per chi non voglia dimenticare, non chiedersi quali siano le giuste vie della memoria.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati in tutto il mondo i monumenti, gli archivi e i musei della Shoah. Sono tutte, nel loro insieme, tendenze musealizzanti di chi cerca di contrastare disperatamente la corsa sfrenata all’oblio: memento e forme didattiche forse insostituibili, ma che sembrano voler dichiarare morta la storia e archiviarla in un passato sempre più lontano. Un ricordo oggettivato nel presente, e un altro esilio per la memoria.

Insito in questa spazializzazione del dolore è il pericolo che se ne proscriva il non-senso, facendo prevalere le ragioni della forma dogmatica su quelle di un contenuto disumano e assurdo.

Nell’ebraismo non è mai stata la materialità del monumento il mezzo privilegiato di trasmissione della memoria; anziché essere il monumento a sollecitare il ricordo, è la memoria a tramandare come monito il ricordo di un monumento. Persino la distruzione del grande Tempio di Salomone è stata convertita in memoria che vivifica un’aspirazione aperta all’infinito. Un’aspirazione smaterializzata, come, per l’ebraismo, l’idea messianica.

Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e di trasmetterla alle generazioni future è assegnato, invece, alla voce e alla scrittura; in breve, alla testimonianza. L’ebraismo ha costituito un modello di trasmissione della memoria come riattualizzazione del ricordo. La Toràh legittima se stessa e l’osservanza di sé proprio costituendosi come memoria del passato, per attivare impegno sociale ed etico nel presente. Alla fine, la memoria ebraica è un cardine della coscienza identitaria.

E’ difficile concepire una memoria viva che non si misuri con il presente, che permetta invece alla consuetudine di anestetizzare le emozioni di fronte ai crimini dell’umanità contro l’umanità.

Per mantenere viva la memoria è imprescindibile l’assunzione del ricordo attraverso l’empatia: la voce di un testimone che ci parli, anche solo da una pagina. Perché, col passare delle generazioni, l’assunzione intellettuale del dolore altrui non implica più assunzione emotiva.

La storia, che pure garantisce stabilità al ricordo, distanzia l’emozione, la normalizza, e dà in cambio un’impossibile obiettività, magari cancellando tante piccole parziali verità. Anche la storia, come il monumento, rischia di sottrarre la memoria al singolo per consegnarla alla collettività universale: magari elaborandola e depositandola su uno scaffale o in un file, a volte pietosamente o colpevolmente revisionata. Restano poi le commemorazioni, i monumenti ai caduti, i musei, e ogni altra forma di memoria collettiva istituzionalizzata, sottratta, per forza di cose, alla coscienza individuale.

Come impedire che la memoria muoia esiliata nella prospettiva storica, come è accaduto con le Crociate, con l’Inquisizione, con i pogrom? La Shoah, questo fastidio, questo impedimento alla pacificazione generale, che si impone oggi anche con questo Giorno della Memoria istituzionalizzato, è forse un’annotazione logora da chiudere nell’archivio della storia, magari dopo aver edulcorato qualche testo scolastico, dopo aver taciuto qualche verità, minimizzato o nascosto qualche corresponsabilità, magari grazie all’istituto giustificazionista della ‘contestualizzazione’.

Primo Levi ed Elie Wiesel hanno espresso entrambi il timore che, con il tempo, la gente smetterà di crederci. Già ora vi è chi non ci crede. Ed è un’impresa difficile quella di non dimenticare e impedire, insieme, che la Shoah sia percepita come un disturbo a una inesistente quiete universale.

Se esilio della memoria è il relegarla al dovere individuale di chi, solo, ha subito la ferita della storia, non lo è meno il consegnarla unicamente al dovere istituzionale, delegando ad altri il dovere della trasmissione. Sarà grazie al nostro oblio che qualcuno riscriverà la nostra storia in una nota a piè di pagina.

La risposta dell’ebraismo alla tentazione dell’oblio è nel testo che ricorda e ritualizza l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto, là dove ingiunge di narrare il passato ai propri figli come se ognuno lo stesse rivivendo nel presente, e indica così non solo il dovere della memoria, ma anche la funzione svolta dal racconto (e dal testo) nel garantirne la continuità: è la consegna del ricordo dal testo all’individuo che assume in proprio la memoria storica e ne riafferma, al tempo stesso, la natura sociale appropriandosene in un atto rituale di lettura collettiva.

La memoria ebraica è scrittura che si fa narrazione che si fa ricordo, che si fa memoria: un testo che, di generazione in generazione, ricorda e richiama alla mente il compito di trasmettere ai figli il ricordo perché essi lo traducano in memoria. L’ebraismo affida la propria continuità non alla storia né al passato, ma alla memoria attiva della storia e del passato.

Anche a salvaguardia di un modello etico, la memoria storica, istituzionalizzata, non può costituire un alibi per l’abdicazione alla coscienza della memoria da parte del singolo.

L’ebraismo ha certamente creato una coscienza collettiva. Ma la partecipazione al dolore altrui non può prescindere dall’introiezione individuale dell’alterità, per insegnare ai nostri figli che forse già oggi l’altro siamo noi.

Se la memoria del proprio passato si attiva in memoria di ciò che ci sta attorno, può forse tradursi in una proposta di confronto e di dialogo nel presente, evitando di rimanere prigioniera del monologo. Ma impegnarsi al riconoscimento delle rispettive memorie non può implicare abdicazione alla propria memoria, al proprio dovere di trasmettere il ricordo, rinuncia a riconoscere e a denunciare i segni della barbarie. E’ giusto porsi il problema del confronto fra le memorie diverse, ma è doveroso affermare, della memoria ferita, la non negoziabilità.

N.B. (Il nuovo interesse per la Shoah: magari, da destra, per rivendicare una patente antirazzista e poter tranquillamente attaccare l’immigrazione islamica, o, da sinistra, per poter prendere serene posizioni antiisraeliane senza attardarsi troppo in tediose analisi storico-politiche.)

Cfr. P. Vidal-Naquet, “Who are the Assassins of Memory?”, conferenza tenuta alla Van Leer Foundation, Gerusalemme, 1992 (http://www.anti-rev.org/textes/VidalNaquet92c/body.html).

Cfr. T. Bastian, Auschwitz e la menzogna di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.

Pensare Auschwitz, a c.di R. De Pas, Milano, Thàlassa De Paz, 1996.

Insegnare Auschwitz, a c. di E. Traverso, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.

Citato in: P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio. Sei saggi di storia delle idee, Bologna, il Mulino, 1991, pp. 195-96.

Ibidem.

S. Levin, cit. in A Treasury of Jewish Quotations,a c. di J.L. Baron, New York, Aronson, 1985, p. 112.