Un pensiero rabbinico
L’ ‘omer
Dalla seconda sera di Pesach inizierà il conteggio dell’’omer, che ci accompagnerà per le sette settimane successive, sino alla festa di Shavu’ot. Durante il periodo dell’’omer ci sono vari usi di lutto, come l’astensione dal celebrare matrimoni e il divieto di radersi. Il Talmud giustifica questi usi collegandoli con il ricordo della morte degli allievi di rav‘Aqivà, che furono decimati nel periodo compreso fra Pesach e Shavu’ot.
In un suo recente volume rav Steinsaltz si interroga circa il motivo di queste usanze. In fondo, la morte degli allievi di rav Aqivà è un evento tragico, ma tuttavia nella storia ebraica vi sono episodi altrettanto se non molto più tristi, che non vengono ricordati per un periodo di tempo tanto prolungato.
Per risolvere questa difficoltà viene proposta una soluzione di carattere generale: molto spesso la giustificazione che troviamo nei libri per motivare una qualche usanza, non è quella reale, o quanto meno non è l’unica. Questo tipo di giustificazione si adatta bene per le usanze del periodo dell’’omer, che, oltre a ricordarci il lutto per le premature morti degli allievi di rav Aqivà, rappresenta la preparazione spirituale in vista del matan Toràh, e gli usi di questo periodo, molto simili a quelli dell’intervallo fra il 17 di Tammuz e il 9 di Av, non sono principalmente manifestazioni di lutto, ma una preparazione per la festa di Shavu’ot. Durante questo periodo dobbiamo evitare di distogliere la nostra mente dalla nostra preparazione spirituale. Anche Tish’à beAv e Kippur sono molto simili nel modo di essere celebrati, ma mentre in un caso il digiuno rappresenta la disperazione per la distruzione del Santuario, nell’altro il digiuno è una manifestazione di santità.
Rav Ariel Di Porto, 8 aprile 2009
Aramì oved avì, L’arameo errante e la terra d’Israele
La Mishnà, nell’ultimo capitolo di Pesachim, prevede che durante il Seder venga recitato e spiegato il brano del libro di Devarim “Aramì oved avì” (Deut. 26, 5 e ss.), lettura prescritta anche in occasione dell’offerta delle primizie (bikkurim). In questo brano troviamo un condensato della storia ebraica antica, dai tempi di Giacobbe sino allo stanziamento in Eretz Israel. Lo scopo del racconto è esprimere gratitudine a Dio per la libertà nazionale e Eretz Israel. Al giorno d’oggi nell’Haggadàh le ultime parti del brano, che riguardano le primizie e lo stanziamento in Israele, non vengono recitate; l’omissione del riferimento al Santuario, non essendovi più il Santuario, è comprensibile. Ma l’ omissione di Eretz Israel è meno comprensibile. E’ possibile dire che Pesach commemori un periodo storico preciso, che va dall’Esodo alla Rivelazione, ma è più probabile che ad un certo punto della storia si sia deciso di eliminare quel passo, per sottolineare il nostro senso di privazione e per rafforzare l’anelito di ritornare liberi in Eretz Israel. L’assenza di questo passo sarebbe quindi solamente temporanea.
Rav Ariel Di Porto, 7 aprile 2009
Schiavi del Faraone
La Haggadàh si apre con le parole “in Egitto eravamo schiavi del Faraone”. Rav Soloveitchik si chiede perché ricordare che fummo schiavi del Faraone, mentre forse sarebbe stato sufficiente dire che fummo schiavi in Egitto. Nella storia dell’umanità sono esistiti vari tipi di schiavitù: in Grecia e in America gli schiavi appartenevano ad individui; nella Germania nazista e nella Russia sovietica le persone erano schiavizzate dallo stesso sistema politico. Nel primo caso fra padrone e servo è possibile che si realizzi un rapporto di empatia, confidenza e fiducia: questo è ad esempio il caso di Yosef e Potifar; nella schiavitù di stato invece l’anonimato esclude ogni forma di rapporto umano, e lo schiavo si tramuta in un numero. Questa era la condizione degli ebrei in Egitto, e la Haggadàh enfatizza questa dimensione.
Rav Ariel Di Porto, 6 aprile 2009
Il crogiuolo di ferro
Rav Soloveitchik spiega quale fu la necessità per il popolo ebraico di essere schiavo in Egitto. Anzitutto, attraverso questa triste esperienza, le dodici tribù si ritrovarono unite in un unico popolo; inoltre, venne reso comprensibile l’interesse di Dio per il destino di Israele. La Toràh suggerisce però un’altra lettura: è scritto infatti “il Signore vi ha presi e vi ha fatto uscire da quel crogiuolo di ferro (kur habarzel), dall’Egitto, per essere il Suo popolo per sempre, come voi siete oggi”. Rashì spiega che il crogiuolo di ferro era un utensile necessario per la purificazione dell’oro. La lunga parentesi egiziana ebbe come conseguenza la formazione ed il raffinamento del carattere ebraico, elevandone la sensibilità etica. Per questo, quando la Toràh vuole insegnare l’idea della solidarietà e della simpatia per gli oppressi, concetto che secondo il Talmud torna ben trentasei volte, ricorda che in Egitto eravamo nella stessa situazione, e non c’è altro popolo al mondo che sappia bene quanto il nostro cosa voglia dire vivere ai margini della società.
rav Ariel Di Porto, 5 aprile 2009
Il sabato del grande evento
Shabbat hagadol, letteralmente “il Sabato del grande”, forse “del grande evento”, è il nome tradizione del Sabato che precede Pesach. Tradizionalmente è il giorno in cui il rabbino si dilunga a spiegare al pubblico le regole per Pesach e forse “grande” è in quel momento il rabbino che parla, o, ironicamente, la giornata in cui il rabbino parla tanto che non sembra finire mai. Storicamente questo Sabato è collegato al decimo giorno del primo mese in cui gli ebrei adempirono all’ordine di prendersi un capretto e tenerlo con sé legato, in preparazione del primo sacrificio pasquale nella notte precedente la liberazione. Il “grande evento” fu quello della mancata reazione egiziana contro gli ebrei. Nella cultura egiziana, vegetariana, prendersi un animale con lo scopo dichiarato di ucciderlo e mangiarselo dopo qualche giorno, era un’offesa, una provocazione. Eppure gli egiziani non fecero nulla agli ebrei. Piuttosto, racconta un midrash, fu quella provocazione che scatenò una guerra civile tra coloro che volevano lasciare liberi gli ebrei e quelli che a ogni costo volevano tenerseli aggiogati. Questa storia, con la mentalità di oggi, è una palese contraddizione al politically correct. Eppure i nostri antenati agirono così, per un preciso ordine divino. E con tutto il rispetto per la cultura vegetariana, che anche tradizionalmente trova importanti sostegni, questa storia dimostra le contraddizioni di alcuni sistemi assoluti; gli egiziani rispettavano gli animali, ma non avevano alcuna riserva a sfruttare e uccidere gli esseri umani.
3 aprile 2009
Questa sera intingiamo due volte
La mitzvà più importante della sera del sèder di Pesach, tra tutte quante, è far sì che i figli facciano domande ai genitori. Per far in modo che questo accada durante il sèder vengano eseguite diverse azioni per rendere la serata diversa da tutte le altre. Proprio all’inizio le domande del Ma Nishtanà.
Una delle 4 strofe recita: “In che si differenzia questa sera da tutte le altre? Ogni sera non intingiamo mai, ma questa sera intingiamo due volte”. Ma di che cosa parliamo? Che cosa intingiamo durante il sèder? Nel testo dell’Haggadà troviamo all’inizio della cerimonia il comando di intingere un pezzettino di sedano nell’acqua salata (o aceto) e verso la fine quello di intingere l’erba amara (in Italia la lattuga) nel charoset (il miscuglio dolce di frutta).
Ma perché questi gesti così strani? Un commentatore contemporaneo, rav Jonathan Sacks, spiega che nel primo caso il sedano (che è dolce) viene intinto nell’acqua amara per significare la schiavitù, cioè che la libertà (il dolce) può essere usata per opprimere altri uomini (e diventa amara). Nel secondo caso invece l’erba amara viene intinta in qualcosa di dolce per spiegare che possiamo riacquistare la libertà solamente se mostriamo solidarietà verso le sofferenze altrui (il charoset simboleggia la malta usata dagli schiavi per i mattoni).
Ma a questa interpretazione si unisce uno straordinario secondo livello interpretativo che lega gli stessi concetti in senso storico, seguendo la particolare modalità del sèder che è tutto nel segno “si inizia nel male per finire nel bene”.
Il primo gesto di intingere sarebbe in ricordo della tunica “a righe” di Yosef che venne intinta nel sangue dai fratelli che lo avevano venduto, per simulare al padre che il suo adorato figlio era stato sbranato da una bestia feroce. Questo primo episodio è legato all’inizio della schiavitù egiziana perché successivamente tutta la famiglia si trasferisce in Egitto. Il secondo gesto invece è legato a un altro “intingere nel sangue”, stavolta quello dei rami di issopo, con cui Dio fa segnare le loro case agli ebrei. Un gesto che permette la salvezza, quindi la libertà, del popolo ebraico quando passa (pasàch) l’angelo della morte.
Capiamo dunque che la schiavitù può essere generata da una disassunzione di responsabilità – la messa in scena dei fratelli di Yosèf per non affrontare il padre. La libertà è invece frutto di un,assunzione di responsabilità – gli ebrei infatti si mettevano in grave pericolo usando il sangue di un animale sacro ai loro aguzzini egiziani.
(per cortese concessione di David Piazza, Morashà)
2 aprile 2009
Il destino di ‘Esav
Il Signore promise ad Avraham che avrebbe ottenuto la terra di Cana’an. Tuttavia la conquista fu preceduta da quattrocento anni di schiavitù in Egitto e quaranta anni di peregrinazioni nel deserto. La Haggadàh ricostruisce brevemente questa storia e ci narra che “originariamente i nostri padri erano degli idolatri…e ad Itzchaq diedi Ya’aqov ed ‘Esav. Diedi in possesso ad ‘Esav il monte Se’ir, mentre Giacobbe ed i suoi figli scesero in Egitto.”. In questo brano la stranezza è che la promessa fatta ad ‘Esav si realizzò pressoché immediatamente, mentre Ya’aqov, prima che la promessa si concretizzasse, dovette attendere e soffrire molti anni. Rav Soloveitchik crede che in questa stranezza si celi una costante della storia del popolo ebraico: la strada che conduce dalla promessa alla realizzazione è sempre lunga e impervia, ed il nostro percorso è spesso momentaneamente deviato, ma alla fine l’aspirazione alla redenzione ha sempre la meglio. Il termine Pesach, originariamente attribuito al Signore, si adatta anche al popolo ebraico, rispetto alla propria capacità unica di superare le difficoltà e gli ostacoli insiti nel proprio destino.
1 aprile 2009
Una libertà eterna
Una delle domande fondamentali che si pone a proposito della celebrazione di Pesach, come ricordo della liberazione dalla schiavitù, è che senso abbia dichiararsi liberi, come popolo ebraico, quando si è assoggettati a poteri estranei. Ogni sera nella tefillà di ‘Arvit diciamo che il Signore colpì i primogeniti egiziani, e ci fece uscire di mezzo a loro, conducendoci lecherut ‘olam “a una libertà eterna”; ma che libertà è senza indipendenza? Oggi la metà del popolo ebraico, in Israele, gode finalmente di indipendenza (anche se non perfetta), mentre la maggioranza degli ebrei della Diaspora vive in paesi democratici godendo di pieni diritti di cittadinanza. Ma la storia fino a pochissimo tempo fa è stata diversa, e malgrado tutte le oppressioni, spesso peggiori di quella egiziana, non si è smesso mai di ricordare l’uscita dall’Egitto. Una possibile risposta è che il ricordo abbia valore di speranza, come dice all’inizio del Seder il brano dell’ Ha lachma ‘ania: “quest’anno siamo qui schiavi, l’anno prossimo liberi..”. In un’altra prospettiva, come spiega il Maharal, bisogna tener presente che non si parla (solo) di una liberazione fisica, ma di una realtà spirituale: il popolo ebraico era assoggettato a quello egiziano soprattutto da un punto di vista spirituale, e la liberazione significa il raggiungimento di un diverso grado di coscienza, di disposizione, di non dipendenza dal condizionamento esterno. E’ ciò che rende il popolo ebraico capace di accettare la Torà. Nel corso della storia in ogni momento, dalla stessa stagione dell’Esodo ai nostri giorni, questo grado di libertà raggiunta può essere messo in discussione. Ma siccome “in ogni generazione ciascuno deve considerarsi come se fosse personalmente uscito dall’Egitto”, la libertà conseguita è il modello con cui misurarsi e sfidarsi per non regredire.
31 marzo 2009
La riconoscenza di Moshè Rabbenu
Abbiamo visto ieri (vedi il pensiero di seguito) come la struttura del racconto della Torà delle 10 piaghe che colpirono gli egiziani sia modulare, con temi e motivi che tornano con un ritmo e un significato preciso. Tra questi motivi c’è anche il ruolo di Moshè e Aharon. Le prime tre piaghe sono scatenate da Aharon; la settima, ottava e nona da Moshè; la sesta da Moshè e Aharon insieme; le altre dal Signore direttamente. Perché questo cambio di soggetti, e perché in particolare Moshè in alcune circostanze si astiene dal prendere parte attiva in un processo che deve portare alla salvezza del popolo ebraico? L’esame attento del racconto serve a spiegare queste domande e la risposta in questo caso è di tipo psicologico e morale, facendo risaltare costanze e contrasti. Una delle principali differenze fra Moshè ed il Faraone è la riconoscenza: quando il Signore si serve per le piaghe di elementi che hanno consentito a Moshè di sopravvivere (il Nilo, da cui era stato salvato alla nascita, o la terra, che aveva nascosto l’egiziano che Moshè aveva ucciso) la piaga (il sangue nel Nilo, le rane dai fiumi, i pidocchi dalla terra) arriva per mezzo di Aharon. Ugualmente quando il Signore dirà a Moshè di attaccare la terra di Midian (Bemidbar 25:17), dove Moshè trovò rifugio, inseguito dal Faraone, questi se ne asterrà, incaricando Pinechas. Moshè mostra riconoscenza non solamente nei confronti di una popolazione (Midian), che era stata benevola con lui, ma persino nei confronti di elementi inanimati. Il Faraone, al contrario, sembra essere animato da un sentimento completamente opposto; la Torà ce lo presenta come colui che non conosceva Yosef, che tanto aveva fatto per salvare dell’Egitto dal tracollo economico. Da questa forma di negazione ne deriva una ben più grave: il Faraone persisterà a lungo a misconoscere il Signore, e le dieci piaghe, oltre a salvare Israele, convinceranno il Faraone del suo grossolano errore.
30 marzo 2009
Le 10 piaghe e la loro sigla
Nella storia del libro di Shemot e nella Haggadà il tema delle piaghe che colpirono gli Egiziani ha un ruolo centrale. Nel Seder le nominiamo una ad una, versando una goccia di vino per ogni nome letto. Alla fine della lettura, ripetiamo che Rabbi Yehudà riassumeva la serie delle piaghe con una sigla di tre parole (detzakh – ‘adash – beachav), che segue l’ordine del racconto biblico e divide le 10 piaghe in tre gruppi (3 – 3 – 4). Da tempo si ragiona su questa sigla, cercandovi significati razionali o misteriose allusioni, che probabilmente vi sono ma sono note solo a pochi. Più semplicemente la sigla ha una sicura funzione mnemonica, può indicare che l’ordine delle piaghe del racconto dell’Esodo è quello che fa testo e non quelli del libro dei Salmi (78 e 105) che le descrivono in una successione differente; ma più probabilmente la sigla serve a spiegare che il racconto della Torà ha un suo ordine e una struttura precisa in cui ogni dettaglio ha senso, e la divisione in tre gruppi corrisponde a una struttura modulare intenzionale. Questa struttura risalta, tra l’altro, quando si considera un motivo particolare del racconto, quello dell’avvertimento. Moshè e Aharon prima di scatenare le piaghe avvisano il Faraone, che se non obbedirà sarà colpito. Ma questo non lo fanno sempre: l’avvertimento manca nella terza, nella sesta e nella nona piaga; quindi due sì e una no, due sì e una no ecc. E nelle coppie dei “si” i verbi che descrivono la comparsa di Moshè e Aharon davanti al Faraone seguono uno schema fisso alternato; nella prima piaga di ogni gruppo l’ordine di “presentarsi”, con parole derivate dalla radice y tz w in una scena che avviene all’aperto; nella seconda è sempre “vieni”, bò (da cui prende il nome della terza parashà), all’interno del palazzo reale. Tutto questo ha un senso non solo letterario, ma anche e soprattutto morale: lo scopo delle piaghe era educativo e didattico: spezzare la resistenza del Faraone e del suo regime tirannico e schiavistico. Lo schema che si ripete tre volte, tra diversi scenari, esprime il processo progressivo dal tentativo di conciliazione alla punizione, dalla proposta di riabilitazione alla sanzione.
29 marzo 2009
Goi mikerev goi, un popolo come l’altro?
Che tipo di ebrei erano i nostri lontani antenati che furono liberati dall’Egitto? Erano schiavi del tutto “assimilati” o avevano una forte identità ebraica? Dal racconto biblico abbiamo solo qualche indizio, il resto è legato a quanto racconta la tradizione rabbinica, che su questo argomento, ovviamente, è divisa. Vediamo le risposte: secondo una linea interpretativa gli ebrei avevano mantenuto la loro identità rimanendo fedeli ad alcuni modelli culturali essenziali: come la lingua e i nomi e non perdendo la speranza nella liberazione. Secondo un’altra linea erano completamente sprofondati nelle “49 porte dell’impurità” egiziana e mancava un soffio alla loro completa perdita; fu solo l’intervento divino a salvare la situazione facendo uscire “goi mikerev goi”, un popolo da dentro a un popolo, senza alcuna differenza tra i due. E’ evidente che le domande e le risposte non riguardano solo gli antenati ma nascondono un problema più grande e sempre attuale: che tipo di ebreo bisogna essere per sopravvivere ebraicamente, e qual è il ruolo degli uomini rispetto a quello divino rispetto ai processi di liberazione? Se noi non facciamo niente per noi che speranze abbiamo di essere liberati?
27 marzo 2009
Il nome di Pesach
Secondo la Toràh il nome di Pesach è legato ad un’espressione che compare in occasione dell’ultima piaga, l’uccisione dei primogeniti egiziani. La Torà (Shemot 12:13) dice: “ed il sangue sarà come segno sulle case in cui vi trovate, e passerò (ufasachtì) sopra la porta…”. Rashì porta due possibili spiegazioni del verbo ufasachtì: può significare “avrò misericordia” oppure “passerò oltre, salterò”. Passando sopra le case, Dio sarebbe passato da una casa egiziana all’altra, tralasciando quelle degli Ebrei. Naturalmente questa espressione non può essere intesa in senso letterale, poiché Dio è in ogni luogo contemporaneamente, ma va intesa dal punto di vista degli effetti della piaga, che di fatto colpì solamente gli egiziani.
Questa immagine del “salto” non può però essere intesa nel solo senso stretto materiale. E’ come se, in senso spirituale, lo stesso Signore abbia fatto un salto, andando oltre al suo consueto modo di procedere nei confronti dell’umanità, con un atto di salvezza verso coloro che accettavano di seguirlo. Il midrash dice che il Signore chiede agli uomini di aprire entro di sè un’apertura grande quanto la punta di uno spillo per la teshuvàh, ed Egli farà il resto. L’uomo è comunque tenuto a fare il primo passo, affinché vi sia l’intervento divino. I Maestri della Chassidut spiegano che l’apertura umana deve essere completa, ed attraversare l’uomo, per così dire, da parte a parte. In Egitto il popolo ebraico fece solamente l’inizio del lavoro, e nonostante ciò ottenne la salvezza, grazie al “salto” divino. Ma il “salto” lo devono fare anche gli esseri umani.
26 marzo 2009