Il peccato di Sodoma
La Torà non è un libro di racconti; anche quello che potrebbe sembrarci lontano nel tempo e nel modo di fare, è in realtà un insegnamento attuale per l’uomo, per ogni uomo o società, portata talvolta a chiudersi in se stessa, pensando solo al proprio benessere e non volendo essere disturbata da chi ha bisogno del suo aiuto.
Lo dice apertamente il Profeta Ezechiele: “Questo fu il peccato di Sodoma tua sorella: l’alterigia, per l’abbondanza del pane ed il tranquillo benessere, si impadronì di lei e delle figlie, sì che non porsero mano al povero ed al misero” (Ezechiele 16:49).
Spiega Rabbì Israel Meir haCohen (conosciuto col nome del suo libro Chafez Chaim, 1838-1935, nel suo Sefer Ahavat Chesed, parte seconda, capitolo secondo): Sodoma era piena di ogni bene ed aveva tranquillità, e i suoi abitanti ritenevano di non dover aiutare nessuna città e vollero evitare la presenza di uno straniero fra di loro, impedendo il passaggio di ogni persona proveniente dalle altre cittadine, non aiutando il povero ed il misero. Ed avendo voluto privarsi della virtù della carità e misericordia (zedakà vachesed) da cui dipende l’esistenza del mondo, sono stati tolti loro stessi, e tutto ciò che a loro apparteneva, dal mondo.
La creazione dell’uomo ad immagine divina (Genesi 1:27) si riferisce agli attributi (middot) del Santo e Benedetto (Salmi 145:9 e 136:25): chi va per la via della bontà e della grazia (chesed) ha in sè l’immagine divina, mentre chi si priva di questa middà si allontana sempre di più da D-o Benedetto. L’esistenza del genere umano dipende da questa carità e misericordia (zedakà vachesed) e non vi è chi non abbia bisogno di chesed. Amare D-o significa in primo luogo amare l’uomo, che D-o ha creato a Sua immagine. Anche in un periodo di crisi economica dobbiamo aiutare con amore chi ha più bisogno di noi, ma soprattutto in un periodo di prosperità non dobbiamo chiudere il nostro cuore verso chi non è partecipe di questa prosperità.
Alfredo Mordechai Rabello