Pagine d’Israele 1 – Haaretz, il mostro sacro con il debole della provocazione

Sul più noto, il più antico, il più controverso e secondo molti nonostante tutto il più autorevole quotidiano israeliano si è detto di tutto. Ma la definizione di Haaretz che probabilmente è destinata a passare alla storia l’ha coniata il padre del Likud Menahem Begin. Interrogato su quale sia la linea politica del giornale di riferimento della classe dirigente, l’allora primo ministro liquidò la questione con poche parole: “L’ultimo governo appoggiato da Haaretz è stato il Mandato britannico sulla Palestina”.
Primo quotidiano a essere pubblicato in Israele, Haaretz è generalmente, ma non da tutti, riconosciuto per la sua indipendenza e per il suo prestigio, e annovera fra i suoi lettori molta parte degli intellettuali israeliani e l’élite economica e politica. Il giornale è molto letto anche all’estero, soprattutto nella sua edizione in lingua inglese realizzata in collaborazione con il gruppo New York Times e distribuita assieme all’International Herald Tribune, nella versione settimanale dedicata agli abbonati in tutto il mondo e grazie al suo noto sito Internet.
Nonostante la tiratura sia ampiamente inferiore ai due maggiori concorrenti, Yedihot Aharonot e Ma’ariv, il quotidiano esercita un’indiscussa influenza sull’opinione pubblica e i suoi editoriali vengono letti con attenzione dalle classi dirigenti, dai politici e dagli ambienti più colti.
D’altra parte è innegabile che Haartez sia un giornale di nicchia, è sì una voce forte nel panorama informativo israeliano, ma non rappresenta l’orientamento dell’opinione pubblica, rema controcorrente e lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni, non certo favorevoli allo schieramento progressista.
Già dal nome, “Il Paese” (nel senso di Terra di Israele), si comprende l’inscindibile e complesso legame che intercorre fra la storia dello Stato ebraico e quella del quotidiano, sin dalla sua origine, nel 1919, Haaretz criticò il conservatorismo dei partiti e dei maggiori esponenti politici, costituendo, peraltro, un’autorevole voce per la risoluzione pacifica della questione mediorientale.
Christoph Schult, giornalista del celebre settimanale tedesco Der Spiegel, racconta lo stupore di scoprire all’ingresso del quartier generale del quotidiano israeliano, un’istallazione raffigurante la carcassa di un animale riprodotto con elementi rossi per i muscoli e gialli per l’interno. Mentre il giornalista contemplava la scultura, gli si è avvicinato l’usciere spiegando: “è come la terra di d’Israele, bella fuori, martoriata dentro”.
Durante i suoi novant’anni di vita, Haaretz ha cercato di portare in superficie le ferite d’Israele, di mettere in risalto le difficoltà e le contraddizioni del proprio Paese, a volte in modo talmente radicale da essere considerato sovversivo e sleale dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Per fare un esempio recente, basti pensare alla posizione presa di alcuni giornalisti che hanno accusato il governo israeliano di perpetrare ai danni della popolazione palestinese una segregazione simile a quella che caratterizzò il Sud Africa.
Nonostante l’impopolarità per alcune prese di posizione, il giornale non ha mai cambiato la sua linea, improntata sui principi di un’estrema libertà d’espressione e di attenzione nei confronti dei diritti civili. Uno spirito critico, talvolta anche ipercritico, ereditato dai padri fondatori, un gruppo di sionisti di origine russa. Ma è con l’arrivo della famiglia Schocken, alla fine degli anni Trenta, durante il Mandato britannico in Palestina, che prende avvio un’era nuova. Il giornale acquista un riconoscimento internazionale per il valore e l’autorevolezza dei suoi collaboratori, dei suoi articoli e reportage.
L’importanza della famiglia Schocken non deriva solo dalla creazione di un impero editoriale conosciuto in tutto il mondo: Salman, capostipite della famiglia, è stato uno dei maggiori promotori della cultura ebraica, in particolare negli Stati Uniti. Divoratore di libri sin da ragazzino, Salman ha una sorta di rivelazione leggendo La civiltà del Rinascimento in Italia di Burckhardt e decide di dare origine ad un “Rinascimento Ebraico”, diventare una sorta di Lorenzo De Medici della cultura ebraica.
Primo passo verso la realizzazione del progetto è la creazione della catena di librerie Schocken in Germania, ma l’avvento del nazismo sconvolge i piani del giovane Salman, che decide di spostarsi nel 1934 in Palestina, portando con sé la famiglia e una collezione di 30 mila volumi di inestimabile valore, fra cui un documento sulla Teoria della Relatività scritto a mano dallo stesso Einstein.
Haaretz nel frattempo inizia ad affermarsi nei circoli benestanti ed intellettuali del Paese, contando sulla collaborazione di illustri personaggi come Ze’ev Jabotinsky, padre del Revisionismo sionista, e Ahad Ha’am (Asher Hirsch Ginsberg), promotore dell’idea della creazione di uno Stato ebraico come centro culturale per l’ebraismo mondiale; un Paese basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini.
Il giornale si rivela un ottimo veicolo per la diffusione delle idee umaniste di Schocken che lo acquista nel 1937, ponendovi come redattore il figlio, Gershom. La realtà è però ben diversa dalle visioni utopistiche di Schocken, che deve confrontarsi con il pragmatismo del sionismo nazionalista. Per trovare nuovo slancio, Salman decide di trasferirsi in America, rinunciando a parte dei suoi ideali giovanili. Uomo altero e testardo, il mecenate tedesco continua nella sua battaglia personale per la diffusione dei grandi classici della letteratura, avendo il merito di pubblicare per la prima volta negli Stati Uniti gli scritti di Kafka e di finanziare il futuro premio nobel Samuel Yosef Agnon. D’altra parte cassa senza tanti complimenti il lavoro di Eliot, entrando in conflitto con una sua collaboratrice, Hannah Arendt che lo definisce un dittatore “insopportabilmente inetto”.

Come il padre, Gershom Schocken, diventato a soli ventiquattro anni direttore del giornale, dimostra ben presto una spiccata capacità imprenditoriale ma, a differenza del genitore, non è condizionato da una visione idealistica della realtà ed è meno radicato al passato. Nei cinquant’anni in cui ha tenuto le redini del giornale, Gershom si è distino per le sue battaglie per la liberalizzazione dell’economia israeliana, contro la censura e per la creazione di una Costituzione per il Paese. (In effetti con l’Indipendenza di Israele, nel 1948, sono state stabilite una serie di leggi fondamentali, ma non una Costituzione). Un uomo di grande dedizione, professionalità e cultura, così lo ha descritto Amos Elon, uno dei principali cronisti nella storia di Israele e autore del libro Israeliani, padri fondatori e figli, dopo la scomparsa dell’editore nel 1990.

Sotto la direzione di Gershom Schocken, lo stesso Elon è diventato un giornalista di fama internazionale grazie alla sua abilità nel dipingere la realtà israeliana: grande successo hanno avuto i suoi articoli sulla realtà dei kibbutzim, sulla vita degli immigrati e sulla “seconda Israele”, riferimento ai settori più emarginati della società israeliana. Considerato uno dei più grandi giornalisti di Israele, Elon è ora lontano dalla redazione, avendo deciso di vivere gli anni della pensione in un pacifico paesino della Toscana. Intervistato da Ari Shavit, giornalista di Haaretz , Elon racconta di aver lasciato il giornale e Israele per una sorta di frustrazione. Negli ultimi quarant’anni, secondo lui, non vi sono stati cambiamenti significativi. I problemi si ripetono, le soluzioni si fanno attendere. Così il giornalista comincia a sentirsi ripetitivo, ad annoiare persino se stesso, non vi è più dialogo o quantomeno non è fatto in modo produttivo. La soluzione di Elon è stata quella di lasciarsi tutto alle spalle.
Qualche buona parola Elon la spende per il suo vecchio giornale, a suo dire uno dei pochi quotidiani nel panorama internazionale a non essere stato risucchiato nell’industria dell’intrattenimento con i suoi titoli sensazionalisti e gli articoli incentrati sulla cronaca nera e il gossip. Elon si complimenta in particolare con Hanoch Marmari (direttore fino al 2004) per aver reso Haartez più interessante e cosmopolita.

Altro giornalista e saggista che ha reso Haaretz la voce più autorevole del Paese, è Ze’ev Schiff, definito in un articolo apparso dopo la sua scomparsa nel 2007, come la quintessenza del corrispondente militare israeliano. Le sua analisi obbiettive e acute venivano lette e prese in grande considerazione dai più alti livelli dell’esercito israeliano. “Era un’istituzione in quanto tale, è stato uno dei fondatori del pensiero strategico in Israele” così lo definisce Zvi Stauber, direttore dell’Institute for National Security Studies.
Corrispondente militare in Vietnam, Unione Sovietica, Cipro ed Etiopia, “Wolfy” (traduzione inglese del suo nome) era difficile da ricondurre ad un determinato schieramento politico. Dopo la guerra del Libano del 2006 criticò aspramente la dirigenza politica e militare, accusandola di incompetenza, di prendere decisioni affrettate e di aver permesso che la lotta al terrorismo finisse per screditare un esercito che prima eccelleva per competenza e preparazione

Queste e molte altre importanti figure del giornalismo israeliano hanno permesso a Haaretz di ottenere un livello qualitativo d’eccellenza, caratterizzato da uno stile diretto e tagliente simile al britannico Times, al tedesco Der Spiegel o all’americano New York Times, giornali che da sempre costituiscono un esempio internazionale di professionalità e indipendenza..

Influenzata dall’umanesimo paterno, l’idea di Gershom Schocken era creare un giornale in grado di garantire al proprio lettore tutte le informazioni necessarie, in modo da farne un membro attivo di una moderna democrazia come il giovane Stato di Israele. Il giornale non deve limitarsi a dare notizie, deve permettere alle persone di confrontarsi consapevolmente con la realtà. Prende così corpo un giornale che analizza i problemi da posizioni diverse, spesso scomode, in modo da dare al lettore una visione che vorrebbe essere ricca e ampia.
Ma come può un giornale avere successo se non riflette nemmeno l’opinione di gran parte dei suoi lettori e abbonati? Vi è un limite da porre all’informazione per evitare di offendere la sensibilità comune? Nell’ultimo periodo hanno creato particolare scalpore e malessere fra i lettori , gli articoli di Gideon Ley e Amira Hass che raccontano la sofferenza dei palestinesi dei territori occupati. Molti contestano ai due giornalisti di parteggiare per la causa palestinese e di dimostrare una sostanziale indifferenza rispetto ai problemi della popolazione israeliana, accusando il giornale stesso di essere sleale.
Il concorrente Jerusalem Post sostiene che i giornalisti di Haartez tendono a demonizzare Israele e fanno un vera e propria propaganda a favore dei palestinesi. Per uscire dalla situazione, oramai imbarazzante, Amos Schocken (nell’immagine in alto), diventato proprietario del giornale dopo la morte del padre Gershom, ha cercato la via del dialogo con i propri lettori, rispondendo via lettera e mail alle loro perplessità.
Dal momento che Haartez stava perdendo lettori e soldi, ci si sarebbe aspettati un’imposizione dall’alto per fermare le polemiche e ammorbidire le voci scomode, mentre Amos si è trovato, come racconta in un’intervista, nella situazione paradossale di dover rassicurare il proprio redattore, troppo preoccupato per l’accesa reazione dei lettori. Quest’ultimo ha replicato stupefatto “ho un fanatico suicida come editore” . La scelta di rimanere coerenti alla direzione presa, spiega Amos, nasce dall’idea originaria degli Schocken che il giornale abbia una missione: raccontare la verità, o quantomeno tentare di farlo, senza rincorrere i sentimenti dei lettori.
Sulla questione palestinese, l’editore sostiene che “la condizione in cui vivono milioni di palestinesi intorno a noi israeliani è qualcosa che dobbiamo conoscere”, inoltre “la capacità degli israeliani di prendere decisioni sul proprio destino migliorerebbe sicuramente se avessero una maggiore conoscenza, e forse una maggiore comprensione, per la vita, i pensieri e le percezioni dei nostri più stretti vicini, i palestinesi”.
Nonostante il periodo burrascoso e in controtendenza al declino generale della stampa in Israele, Haaretz (di cui a fianco riportiamo un’immagine della sede) è cresciuto del 20% nelle vendite negli ultimi tre anni, in particolare con i direttori David Landau prima e Dov Alfon poi. Il giornale è passato da 62,000 a 74,000 copie vendute durante la settimana e intorno alle 100,000 al venerdì, con la ricca edizione del fine settimana, quando il giornale esce con inserti riguardanti scienze, cultura, arte, finanza e sport. Grande successo sta ottenendo il sito in inglese, con quasi un milione di visitatori al mese e un ampio e dinamico spazio per i commenti dei lettori.
Per incrementare ulteriormente le vendite nella primavera del 2008 è stato nominato alla direzione Dov Alfon, ritornato al giornale dopo un brillante periodo al comando della casa editrice Kinneret Zmura-Beitan Dvir, che sotto la sua direzione ha duplicato il numero delle pubblicazioni vendute.
Secondo Alfon uno degli ostacoli maggiori a una maggiore diffusione del quotidiano è la dimensione del formato, troppo grande e ingombrante. Preferirebbe vedere Haaretz in una forma più snella, simile a quella dei tabloid inglesi. Ma i contenuti, assicura il nuovo direttore, non cambieranno. Alfon ha più volte sottolineato come in Israele, a differenza che in Europa o negli Stati Uniti, la politica continui a far vendere e che gli israeliani esprimano un grande desiderio d’informazione. Un dato che contribuisce a tutelare la salute di molte testate diverse e ne garantisce l’indipendenza anche quando scelgano la strada della critica e talvolta della provocazione.

Daniel Reichel