Mario Giacometti, marinaio del dopoguerra e l’immigrazione clandestina
“Nel dopoguerra, nel 1947, mi capitò di imbarcarmi su un vecchio bastimento che era stato acquistato dall’Haganà per portare i profughi dei campi di concentramento tedeschi nella terra di Sion. Si presentarono a bordo tre persone, ci spiegarono lo scopo del viaggio e ci raccomandarono di tenere il segreto su tutto: chi non voleva partire poteva rimanere a terra e avrebbe avuto una ricompensa. Io e il mio amico Carlino accettammo, perché allora era difficile trovare un imbarco.”
Inizia così il racconto di Mario Giacometti a Sorgente di Vita: una storia scritta con l’aiuto della figlia Daniela in un libro, “Rotta per la Palestina” edito da Mursia.
E’ la storia di due viaggi dell’ “alyà beth”, l’immigrazione clandestina, da un punto di vista insolito: non quello degli ebrei sopravvissuti ai campi che cercavano di raggiungere Eretz Israel, nè quello degli organizzatori, come Ada Sereni, che raccontò quella vicenda in prima persona. E’ il punto di vista di un, allora giovane, marinaio italiano.
Lo incontriamo al porto di Viareggio, spostandoci da un molo all’altro, tra yacht, motoscafi e pescherecci: il suo mondo di sempre, perché marinaio, e poi comandante, Giacometti (nell’immagine a fianco) lo è stato per tutta la vita. Oggi è uno scattante pensionato di ottantuno anni che snocciola i suoi ricordi con una colorita parlata viareggina, infarcita di termini marinari. “Mio padre era cuoco su navi mercantili: dopo le scuole elementari feci anche io il libretto di navigazione e mi imbarcai come mozzo, in piena guerra”. Spirito di avventura, incoscienza giovanile e bisogno di guadagnare negli anni difficili del dopoguerra lo trascinarono poi nella missione della “alyà beth”. Naturalmente Giacometti ignorava che dalle coste italiane tra l’estate del ’45, fino alla proclamazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, partirono tante navi cariche di ebrei scampati ai lager; non sapeva che la sua scelta l’avrebbe portato nel meccanismo di una efficiente organizzazione che riuscì a far partire circa 23.000 persone. Fu così che nel settembre del ’47 si imbarcò sul “Giovanni Maria”.
“Era un viaggio diverso dal solito. Questa volta non si trasportava mercanzia varia ma persone. Io non sapevo nulla dei campi di concentramento: solo tra i più anziani era trapelata qualche notizia”. Nel porto di La Spezia la nave fu trasformata: “costruimmo una cabina grandissima sopracoperta, per accogliere le donne, i bambini e creare una specie di infermeria. Nella stiva, a partire dal fondo, montammo dei tubi innocenti e reti metalliche. Così potevamo caricare circa 1200/1300 persone”. Sembra di vedere le scene del film “Exodus” e i particolari sono fedeli ai rari filmati dell’epoca. Partirono di notte dal porto di La Spezia: la prima tappa fu a Bocca di Magra, per caricare i viveri. “Salirono a bordo 7 persone dell’Haganà, tra questi il comandante, Amnon, e c’erano anche dei telegrafisti. Avevamo infatti una sala radio che faceva invidia a un transatlantico, si parlava fino in America”. “Amnon – ricorda Giacometti – aveva circa 30 anni, era un vero comandante di marina, un giovanotto alto con i capelli rasati, sul biondiccio, aveva un accento americano, ma parlava bene italiano. Una volta ci disse: qui siamo tutti pirati”.
Il “Giovanni Maria” navigò fino alla costa francese: a La Ciotat, di notte, per non essere scoperti, salirono a bordo 1300 passeggeri. “Erano persone, oserei dire miserabili, pieni di sacchi, borse, tante donne, vecchi, bambini. Il viaggio andò tranquillo, aiutato dal tempo e dalla nebbia. Parlare si parlava con le persone che venivano sopracoperta la sera, ma non ci dicevano molto, erano restie a raccontare”.
“Di notte arrivammo davanti a una piccola spiaggia con le dune, vicino a Tel Aviv, si vedevano solo le luci. Ci arenammo con la prua e sbarcammo le persone: chi si buttava a mare, chi si trascinava con le corde lanciate da terra, donne e bambini venivano portati con i battelli. Mi ricordo i pianti, ricordo che piangevano tanto; erano arrivati a casa loro, dopo tutto quello che era successo”.
Il viaggio era finito: il “Giovanni Maria” ripartì subito verso l’Italia. Dopo molte disavventure ci fu un secondo viaggio: questa volta l’imbarco dei passeggeri fu sulla spiaggia corsa della Girolata. A poche miglia dalla Palestina furono intercettati da un cacciatorpediniere, curiosamente avvolto da reti metalliche. “Gli ebrei cominciarono a tirare ogni ben di Dio, scatolame e tutto quello che capitava a tiro; tutto rimbalzava sulle reti e cadeva in mare. Ricordo che gli inglesi ridevano di questo, e sghignazzavano”. “Poi gli ebrei spalmarono il ponte con olio e grasso” racconta compiaciuto Giacometti, “e col rollio gli inglesi che salivano a bordo prendevano bastonate dagli ebrei e venivano ributtati a mare dall’altra parte” . Sugli alberi della nave sventolavano tre bandiere bianche e azzurre con la stella di David: “fummo io e Carlino a metterle lassù: per ordine di Amnon facemmo in modo che non si riuscisse a levarle, tagliando tutte le corde e le scalette”. Ormai era finita: passeggeri e marinai furono presi in consegna dagli inglesi. Sbarcati nel porto di Haifa, radunati in capannoni, toccò loro una doccia e una visita medica. I sette marinai italiani, senza documenti, complici di un’attività illegale, correvano seri rischi. “La paura era tanta: se scoprivano che eravamo cristiani, italiani, erano cinque anni di prigione in Inghilterra”. Finirono invece nei campi profughi sull’isola di Cipro. “Lì abbiamo vissuto due mesi: noi sette avevamo una tenda per conto nostro, ma poi si viveva tutti insieme, si giocava a pallone, facevamo un po’ di ricreazione, ma il cibo non era buono, la solita brodaglia inglese. Noi eravamo dei privilegiati, gli ebrei stessi ci davano di più, si toglievano il pane di bocca, perché sapevano chi eravamo. Non avevamo possibilità di fuga, c’era una doppia rete di recinzione, garitte in ogni angolo, la notte era illuminata dai proiettori. Naturalmente gli ebrei erano riconoscenti, anche se secondo me non ce lo meritavamo, avevamo fatto quello che ci eravamo sentiti di fare. Ci hanno aiutato a passare da un campo all’altro, facendoci raggiungere prima la libertà”. Entrati in Palestina i sette italiani trascorsero due mesi in kibbutz, quasi una vacanza. Poi un bel giorno, continua Giacometti “arriva Amnon, e ci dice che è arrivato il momento di tornare a casa”. “Arrivato a casa mia madre mi rifilò uno schiaffo. Io non capii, e lei mi disse: sei un bel mascalzone, dove sei andato a finire tutti questi mesi!” ricorda oggi divertito l’ingloriosa fine dell’avventura. E poi con semplice schiettezza azzarda un bilancio: “naturalmente, stando a contatto con quelle persone ci siamo resi conto che era una cosa grande: non che davamo tanta importanza, ma era qualcosa di bello. A distanza di tutti questi anni, con tutto quello che sta ancora succedendo, penso che rifarei senz’altro una cosa del genere, non mi tirerei indietro: però – conclude Giacometti con il suo colore dialettale – penso anche che abbiamo contribuito a tutto questo ravoglio che c’è nel mondo”.
Piera Di Segni
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