Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma
Ho l’onore di porgere a Lei, Papa Benedetto XVI, Vescovo di Roma, i saluti della Comunità ebraica di Roma per la gradita visita che ha voluto riservarci in questo giorno dedicato al dialogo ebraico/cristiano e per festeggiare insieme alla nostra Comunità il Moed di Piombo.
Saluto anche tutte le Autorità religiose, civili e militari, il pubblico qui presente e tutti coloro che ci seguono.
Beruchim Abbaim. Benvenuti.
Quello odierno è un evento che lascerà un segno profondo nelle relazioni fra il mondo ebraico e quello cristiano, non solo sul piano religioso ma soprattutto per la ricaduta che auspichiamo possa avere tra le persone nella società civile.
La nostra è la più antica Comunità della Diaspora occidentale. Vivace, vitale, orgogliosa della propria storia, sempre più osservante delle proprie leggi e delle tradizioni. Con scuole che negli ultimi 10 anni sono caratterizzate da una crescita costante del numero degli iscritti. Una Comunità che nel corso dei secoli ma, soprattutto dopo il 1870, ha potuto dare il proprio contributo alla crescita culturale, economica e artistica non solo della nostra Città, ma dell’intero nostro Paese; che ha combattuto per l’unità d’Italia e ha difeso la Patria nel primo conflitto mondiale. Una Comunità che ha contribuito alla Resistenza e ha dato uomini politici e premi Nobel. Raccogliamo l’eredità di uomini politici come Ernesto Nathan, sindaco di Roma nei primi del ‘900, difensori della laicità delle Istituzioni, consapevoli nello stesso tempo di come il senso di laicità non debba mai essere in contrapposizione con il contributo che le religioni monoteiste possono dare ai più importanti dibattiti nella società in cui viviamo.
La nostra vitalità è testimoniata dalle 15 Sinagoghe oggi presenti nella Capitale, più che raddoppiate rispetto a quelle presenti nel 1986, l’ultima è la Shirat HaYam, che ha visto la luce da sei mesi a Ostia.
Prima di tutto, sentiamo il dovere di riconoscere che il nostro Rabbino Emerito Professor Elio Toaff – che saluto con devozione – e Giovanni Paolo II, al quale va un commosso ricordo, ebbero la capacità di comprendere quanto la collaborazione tra uomini delle nostre diverse religioni potessero, da Roma, realizzare aspirazioni e dare vita a “sogni”.
Rav Toaff, nel suo storico intervento di saluto a Giovanni Paolo II nel 1986, auspicava un impegno comune contro l’Apartheid in Sud Africa e la libertà religiosa nell’Unione Sovietica; le due vicende hanno avuto felici epiloghi.
Nella stessa occasione il mio predecessore professor Giacomo Saban, qui fra noi, auspicò l’apertura di relazioni diplomatiche fra lo Stato d’Israele e lo Stato del Vaticano. Questo “sogno” si è avverato nel 1993. La presenza del vice primo Ministro d’Israele Silvan Shalom e dei nostri amici, gli ambasciatori Mordechai Levy e Gideon Meir, testimonia come tali relazioni, siano per noi ebrei, tanto nella Diaspora che in Israele, sentite e condivise.
Per noi ebrei lo Stato d’Israele è il frutto di una storia comune e di un legame indissolubile che è parte fondante della nostra cultura e tradizione. Un diritto, che ogni uomo che si riconosce nelle sacre scritture Bibliche sa essere stato assegnato al Popolo d’Israele.
Il nostro pensiero e le nostre preghiere vanno al giovane soldato Gilad Shalit, cittadino onorario di Roma, che da 1302 giorni è prigioniero e del quale attendiamo la liberazione.
Sento il dovere di sottolineare con gratitudine che Lei è il primo Vescovo di Roma che rende omaggio alla lapide del piccolo Stefano Gay Tachè z.l., prendendo atto di come questa Sinagoga di Roma sia stata teatro di un brutale atto terroristico palestinese.
E’ giunto il tempo di lavorare a nuove aspirazioni.
Desideriamo esprimerLe tutta la nostra solidarietà per gli inauditi atti di violenza di cui sempre più spesso le comunità cristiane sono oggetto in alcuni paesi dell’Asia e dell’Africa ed abbiamo la sensazione che il mondo occidentale non esprima sufficientemente il proprio sdegno. L’azione sui Governi dei Paesi in cui è vietato costruire una Chiesa o una Sinagoga dovrebbe essere più energica. Vigilare affinché i diritti fondamentali delle donne e la libertà religiosa vengano tutelati in democrazia e libertà.
Più di un milione di ebrei sono dovuti fuggire o sono stati espulsi dai Paesi arabi, alcuni dei quali oggi non tollerano i cristiani. Nel 1967 circa cinquemila ebrei sono dovuti scappare dalla Libia e si sono rifugiati in buona parte a Roma. In tale occasione la nostra Comunità ha dimostrato la capacità d’integrazione e accoglienza di una nuova presenza, dono di vitalità e dinamismo.
Desidero, inoltre, manifestarLe il nostro vivo apprezzamento per la posizione coraggiosa che Lei ha assunto sul tema dell’immigrazione. Noi, che fummo liberati dalla schiavitù in terra d’Egitto, come ricorda il primo Comandamento, siamo al Suo fianco perché tale tema venga affrontato con “giustizia”.
Possiamo e dobbiamo contrastare paura e sospetto, egoismo ed indifferenza; Rafforzare la cultura dell’accoglienza e della solidarietà, dell’altruismo e della sete di conoscenza dell’altro. Dobbiamo contrastare quelle ideologie xenofobe e razziste che alimentano il pregiudizio, far comprendere che i nuovi immigrati vengono a risiedere nel nostro Continente, per vivere in pace e per raggiungere un benessere che ha forti ricadute positive per la collettività tutta. Ricordandoci che ogni essere umano, secondo le nostre comuni tradizioni, è fatto ad immagine e somiglianza del Creatore.
Siamo tutti preoccupati per il fondamentalismo islamico. Uomini e donne animati dall’odio e guidati e finanziati da organizzazioni terroristiche cercano il nostro annientamento non solo culturale ma anche fisico. Questo fanatismo religioso è sostenuto anche da Stati sovrani.
Tra questi Stati ci sono coloro che sviluppano la tecnologia nucleare a scopi militari programmando la distruzione dello Stato d’Israele e il conseguente sterminio degli ebrei, con l’intento ultimo di ricattare il mondo libero.
Per questo, dobbiamo solidarizzare con le forze che nell’Islam interpretano il Corano come fonte di solidarietà e fraternità umana, nel rispetto della sacralità della vita. In questa Sinagoga, sono presenti oggi alcuni di questi leader musulmani e con calore e affetto sento di dar loro il benvenuto.
Il peso della Storia si fa si sentire anche sull’evento di oggi con ferite ancora aperte che non possiamo ignorare. Per questo guardiamo con rispetto anche coloro che hanno deciso di non essere fra noi.
Lei ha reso omaggio a Largo 16 Ottobre, teatro del rastrellamento infame del ’43; colgo per questo l’occasione di salutare con commozione e orgoglio i superstiti della Shoàh qui presenti.
Zachor et asher asà lechà Amalek – Ricorda ciò ti che fece Amalek è scritto nel Deuteronomio capitolo 25 verso 17.
Noi figli della Shoàh della seconda e terza generazione, che siamo cresciuti nella libertà, sentiamo ancor di più la responsabilità della Memoria. Chi le parla è figlio di Emanuele Pacifici e nipote del Rabbino Capo di Genova Riccardo Pacifici z.l., morto ad Auschwitz insieme alla moglie Wanda. Se sono qui a parlare da questo luogo sacro, è perché mio padre e mio zio Raffaele z.l. trovarono rifugio nel Convento delle Suore di Santa Marta a Firenze.
Il debito di riconoscenza nei confronti di quell’Istituto religioso è immenso e il rapporto continua con le suore della nostra generazione. Lo Stato d’Israele ha conferito al Convento la Medaglia di Giusti fra le Nazioni.
Questo non fu un caso isolato né in Italia né in altre parti d’Europa. Numerosi religiosi si adoperarono, a rischio della loro vita, per salvare dalla morte certa migliaia di ebrei, senza chiedere nulla in cambio.
Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoàh, duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso, un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz.
In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania nazista.
Numerosi sono stati i gesti e gli atti di riconciliazione compiuti dal pontificato di Giovanni XXIII a quello di Giovanni Paolo II. Dalla Nostra Aetate alla visita che Lei ha compiuto in Israele e ad Yad Vashem, questi atti testimoniano che il dialogo tra ebrei e cattolici, seppur talvolta difficoltoso, può e deve continuare.
Sarebbe bello che da questa Sua visita possa avviarsi un ulteriore impulso alle attività di conoscenza e divulgazione dell’immenso patrimonio librario e documentario relativo alla produzione ebraica che è custodito nelle biblioteche e negli archivi vaticani.
Apriamo i nostri cuori e da questo storico incontro usciamo con un messaggio di solidarietà. Lo dobbiamo a noi stessi. Lo dobbiamo ai nostri figli. Per lasciare loro una eredità importante ed aiutarli al confronto fra individuo e individuo.
Questo è il nostro modo di intendere il dialogo fra le religioni. Affinché si possano avere figli, da una parte e dell’altra, sicuri e consapevoli delle proprie tradizioni. Aperti al confronto, nella diversità, quale comune ricchezza per una società che si vuole definire libera e giusta