Davar Acher – Popolo o illusione?

Sarà colpa di Shlomo Sand e del suo libro che nega il popolo ebraico in nome della correttezza politica antisionista. Sarà merito dello studio storico che lavora in maniera meno ideologica di un tempo sui rapporti fra l’ebraismo e il suo contesto europeo, così intensi e contraddittori a partire dall’Illuminismo. Sarà l’urgenza provocata dalla crisi demografica e dalla “lontananza” crescente di molti. Fatto sta che anche l’ebraismo italiano si pone con maggiore interesse e con notevoli divisioni di fronte all’interrogativo dell’identità ebraica. Si tratta di un’essenza intatta o del frutto di numerose contaminazioni? Ha carattere etnico, religioso, nazionale o è una semplice invenzione? Siamo un popolo, una “popolitudine”, un gruppo di interesse, un insieme di fedeli? Come si può oggi riproporre una tale identità in tempi di multiculturalismo e di globalizzazione? Non sarà antiquato “fuori moda”, “essenzialista”, anzi reazionario, semplicemente parlarne? Perché non accettare, come ha deciso il tribunale supremo inglese, che è ebreo chi dice di credere nella nostra fede, comunque essa sia a sua volta definita?
E’ una questione millenaria, che si trova già sviluppata nelle nostre scritture in maniera complessa e dialettica. Nessuno può pretendere di dire su di essa una parola decisiva. Da parte mia vorrei invitare chi discute a prendere in mano il libro di David Banon recentemente tradotto da Jaca Book sotto il titolo “La lettura infinita” (ma in realtà risalente a più di vent’anni fa). Sotto lo scopo di tracciare un’analisi dei procedimenti midrashici, vi si trova una sorta di amorosa anatomia del pensiero ebraico, o del suo spirito, che si è conservato, continuo se non intatto, almeno dai tempi dei profeti e poi della Mishnà a oggi. Vi troviamo un procedimento di pensiero e un oggetto (che non è la teologia ma il senso del tempo), la cui originalità e differenza da forme di pensiero di comparabile durata e complessità come la storia della filosofia occidentale è evidente. L’ebraismo va dunque compreso sui tempi lunghi per la sua capacità di riprodurre questo pensiero, oltre che naturalmente di difendere una cultura materiale in senso antropologico (e più specificamente uno “lifestyle” come lo definiosce Bersano): ne fanno parte regole alimentari, feste, organizzazioni comunitarie, liturgia, regole di gestione del corpo, strutture familiari insomma buona parte di quel che noi chiamiamo alakha. Questi stili di pensiero e di vita hanno mantenuto una straordinaria costanza nello spazio e nel tempo e influenzano ancora, benché in maniera indiretta, le frange sempre più ampie che ne sono uscite.
Ad esse si aggiunge un’autocoscienza collettiva, che è sempre stata scelta, non data come un fatto inevitabile: negli ultimi venti secoli praticamente ogni singolo ebreo ha avuto la possibilità e spesso una tremenda pressione per uscire dal suo contesto e diventare altro. Noi siamo qui oggi perché i nostri avi hanno scelto ciascuno di essere ciò che era, e questa scelta oggi incombe a ciascuno di noi, in un contesto meno drammatico ma non per questo meno capace di forzare comportamenti. A noi oggi forse non basta scegliere di essere ciò che siamo, abbiamo bisogno di diventare ciò che siamo, di specificarci rispetto alla società.
Un pensiero autonomo e originale; una cultura materiale diversa da tutte le altre profondamente radicata e dettagliatamente specificata in maniera esplicita; un’autocoscienza chiara che si sostanzia in scelte individuali sempre difficili, talvolta eroiche. Tutto ciò prolungato nella storia per forse un centinaio di generazioni. Lungi da essere un’invenzione (magari nel senso buono), come il popolo italiano, quello tedesco o quello americano, am Israel è forse la realtà sociale più solida che si sia presentata nella storia.

Ugo Volli