Voci a confronto
Ieri è stato il giorno di Gilad Shalit, anche se lui, in tutta probabilità, non l’ha saputo. Nella giornata odierna, infatti, ricorre il quarto anniversario del suo rapimento da parte di Hamas. Sono trascorsi ben 1.461 giorni, per intenderci. In diverse città italiane si sono quindi svolte iniziative in sostegno della sua liberazione. Alle 23, corrispondenti alla mezzanotte in Israele, le luci del Colosseo sono state spente mentre un nutrito gruppo di persone, almeno cinquemila, raccoltesi sotto l’Arco di Costantino, su iniziativa del Bené Brith giovani e dell’Unione dei giovani ebrei italiani, manifestavano insieme al padre di Gilad, Noam Shalit. Moked si è più volte soffermato sulla vicenda politica ma, soprattutto, umana dell’incolpevole vittima e continuerà senz’altro a farlo poiché è in gioco non solo una vita ma il principio stesso di umanità. Ne danno notizia diversi quotidiani, soprattutto quelli romani dove si è tenuto l’evento più importanti tra i diversi annunciati. Così, quindi, la Repubblica, le pagine cittadine di Libero, quelle del Messaggero, del Tempo e un trafiletto de l’Unità. Significativo il silenzio di altre testate, laddove vale il vecchio principio per cui a volte è più eloquente ciò che non si dice (e chi tace) di quel che viene affermato (e di chi lo fa). Inutile negare il fatto che per una parte della pubblicistica italiana la vicenda Shalit sia vissuta come una fastidiosa – e irrilevante – epitome delle tante tragedie mediorientali. Non è poi arbitrario supporre che dopo i fatti luttuosi della Mavi Marmara vi sia una cautela ulteriore nel presentare ai propri lettori l’evoluzione della cupa storia che ha travolto il giovane militare. Peraltro, per non pochi italiani, abituati a leggere il conflitto israelo-palestinese con le lenti deformanti di tanta informazione, diventa difficile identificarsi con la storia di un soldatino di leva (lo diciamo con affettuosa tenerezza, poiché le sue foto ci rimandano il ritratto di un pulcino da poco cresciuto, provvisto di un sorriso candido e pudico, magro quel tanto che basterebbe ad ogni madre per chiedergli ossessivamente se mangia “a sufficienza”). Più che una indifferenza che malgrado tutto non ci appartiene come italiani, è il sistema delle rappresentazioni correnti, quelle che giocano sulla truce dinamica semplificativa tra buoni e cattivi, a fare da filtro rispetto ad una maggiore considerazione collettiva. Shalit ha una “colpa”, anzi forse più di una, a partire dalla divisa che indossa, che nel pensiero di senso comune è il segno di una intollerabile arroganza, quella per cui gli “ebrei” (ben pochi dicono “israeliani”) non solo non fanno le vittime ma vogliono anche difendersi da sé. E lo fanno, sempre secondo questa linea di pensiero, con tracotanza. Aggiungiamo però anche un altro elemento, che non può essere sottaciuto, e che riemerge prepotentemente in un’altra barbarica nonché parallela vicenda, quella del rapimento e dell’assassinio, quattro anni fa, in Francia, di Ilan Halimi, un ventitrenne di origini ebraiche: in tempi aspri gli ebrei faticano a trovare solidarietà e, ancora di più, giustizia. La coltre di timori o di falsi pudori copre a malapena, come una coperta troppo corta, convincimenti radicati, per i quali più che oggetto di un pacato giudizio è bene che siano sanzionati collettivamente da un immediato pregiudizio. Il paradosso è che questo può assumere, come avviene il più delle volte, i connotati peggiori, ma anche, in altri casi, quelli migliori, basati però sempre su un erroneo, nonché calamitoso, convincimento, quello per cui coloro che sono definiti “ebrei” (il virgolettato è più che mai d’obbligo, in questo caso) siano i portatori di una condizione eccezionale, irriducibile ai paradigmi della vita ordinaria. Varrà allora la pena di affermare che proprio quanti sono così etichettati rivendicano invece il diritto ad una vita normale. Quindi, non curatele speciali né, tanto meno, un trattamento diverso da quello offerto ad altri. Ecco, semmai è proprio il richiedere d’essere considerati né più né meno alla stregua degli “altri” ad essere l’elemento dello scandalo collettivo: d’altro canto, quando una vittima vuole dismettere il suo scomodo abito, si può stare certi che troverà chi non glielo concederà tanto facilmente. Riflessioni che si riallacciano a tale scenario sono quelle che ci offre Anna Foa sull’Osservatore romano parlandoci dell’ultimo testo di Yosef Hayim Yerushalmi, uscito postumo in italiano. Un ritratto a tutto tondo, che ricostruisce anche i retroscena che stanno dietro al rapimento di Shalit è infine quello che ci consegna Pino Buongiorno su Panorama, parlandoci dell’intera vicenda in termini problematizzanti. Il giovane prigioniero è divenuto l’indice di una complessa partita, non solo tra Israele e Hamas ma anche all’interno dei rispettivi schieramenti, laddove si confrontano ipotesi di condotta anche molto diverse riguardo al suo destino. Che speriamo sia solo uno, quello di uomo libero, di nuovo tra noi, fuori da un incubo tanto terribile quanto avvilente.
Claudio Vercelli