Il Nabuco a Masada

Avete mai visto un direttore d’orchestra che, dopo aver fatto suonare il bis di una celebre aria, interrompe la rappresentazione, prende in mano il microfono, spiega al pubblico perché quella musica lo emoziona e significa tanto per lui, e poi invita i 6.500 spettatori ad ascoltarla per la terza volta, unendo le proprie voci a quelle del coro?
E’ successo a Masada, durante la prima del Nabucco, diretto da un ispiratissimo Daniel Oren, presente il presidente Shimon Peres, una buona parte del governo e del corpo diplomatico internazionale.
Meraviglioso lo spettacolo, costumi sontuosi, giochi di luce, effetti speciali, bravissimi i cantanti, dalla soprano greca Dmitra Theodossiou agli italiani Tiziana Carraro, Alberto Gazale, Nazzareno Antinori, nonostante l’handicap del palcoscenico all’aperto e di un vento che, se alleviava il caldo torrido della notte sul mar Morto, non favoriva certo l’acustica.
Ma non è stata solo la sapiente regia di Joseph Rochlitz, la bravura della Israeli Opera di Tel Aviv, dei cantanti, del coro, a rendere il Nabucco a Masada un evento eccezionale.
Il Nabucco, fin dalla sua nascita, è stata un’opera a forte valenza simbolica, tanto da diventare il vessillo del Risorgimento italiano. Abbiamo tutti imparato a scuola che il nome dell’allora giovane e non ancora celebre compositore (anzi, la sua opera precedente, “Un giorno di regno” era stata un fiasco clamoroso), serviva agli irredentisti come acronimo per acclamare Vittorio Emanuele Re D’Italia.
E’ anche un’opera fortemente ebraica. Non tanto per l’ambientazione in tempi biblici e per la fantasiosa ricostruzione della caduta del primo Tempio per mano di Nabuccodonosor nel 587 a.e.v e la conseguente deportazione del popolo di Israele. E’ un’opera ebraica per il contenuto sociale e religioso, dalla difesa del credo monoteistico, al caparbio rifiuto dell’idolatria, all’amore per quel fazzoletto di terra nel deserto e per Gerusalemme dalle aure dolci. E Va’ pensiero potrebbe essere definito l’emblema della diaspora ebraica, e di tutte le diaspore, la sintesi, al massimo livello artistico ed emotivo, di duemila anni di nostalgia.
Quale luogo migliore per rappresentarla di Masada, roccaforte della più strenua resistenza ebraica all’invasore straniero, 660 anni dopo la distruzione del Tempio per mano di Nabuccodonosor, e un anno dopo la seconda distruzione del Tempio, questa volta per mano romana? Masada, con i suoi mille combattenti, tra cui donne, anziani e bambini, che riuscirono a tener testa a 10 mila legionari romani per parecchi mesi, e che alla fine preferirono il suicidio collettivo alla resa, è diventata il simbolo dell’ebraismo combattente e arbitro del proprio destino, l’emblema dell’anti Shoah, lo spirito di Israele che rifiuta il vittimismo della diaspora e, se deve morire, sceglie di morire combattendo.
Tutti questi riferimenti, in giornate controverse come quelle dei primi di giugno, in cui tutto il mondo attaccava Israele per il raid sulle navi dei sedicenti pacifisti (qui li hanno ribattezzati i “pacifinti”), hanno contribuito a rendere il Nabucco di Masada uno spettacolo a forte valenza emotiva. Una emozione a cui nessuno si è sottratto. Lunghi applausi, anche a scena aperta, commenti entusiastici e soprattutto l’impressione di aver assistito a un evento irrepetibile.

Luigi Mattiolo, ambasciatore italiano in Israele, era presente con la moglie Stefania allo spettacolo.
Che effetto le ha fatto il Nabucco, così simbolico per il nostro Risorgimento, ambientato a Masada?
Proprio la sera precedente la Prima di Nabucco a Masada, nel rivolgere il mio saluto alle centinaia di ospiti affluiti in Residenza per celebrare la Festa nazionale italiana del 2 giugno, avevo ricordato quanto siano profondi e solidi i legami storici tra Risorgimento e Sionismo, i due movimenti fondanti dello Stato italiano e di quello di Israele, entrambi ispirati dal bisogno condiviso di vivere liberamente la propria storia e di affermare la propria identità.
L’aver scelto Masada, luogo simbolo della resistenza del popolo ebraico, per rappresentare l’opera lirica che meglio esprime l’epopea degli ebrei liberati dall’esilio di Babilonia ha permesso di raggiungere il massimo livello di suggestione.
Le é piaciuto lo spettacolo?
Certamente. Lo scenario irripetibile del deserto alle pendici di Masada, la regia accorta e grandiosa, la valenza dei cantanti e del coro, il rigore interpretativo dell’orchestra e la straordinaria capacità del Maestro Daniel Oren, autentico catalizzatore di emozioni, hanno reso indimenticabile questa edizione del capolavoro verdiano.
L’operazione artistica assume anche una valenza politica?
Credo che – dopo la straordinaria tournée del Teatro alla Scala di Milano dello scorso anno – il Teatro dell’Opera di Tel Aviv abbia consacrato con il “Nabucco” a Masada la propria collocazione tra i maggiori teatri lirici del mondo per qualità e popolarità delle sue produzioni. Penso di poter ritenere che dal 2010 Masada puo’ essere annoverata tra i grandi appuntamenti lirici estivi, accanto ad esempio alle stagioni all’Arena di Verona ed alle Teme di Caracalla. La valenza politica é indiretta, ma non per questo meno significativa: Israele si conferma un Paese aperto e partecipe della cultura europea, un luogo di attrazioni e di emozioni.
E l’anno prossimo, il festival di Masada che ha in cartellone l’Aida prodotta dall’Arena di Verona, consoliderà ancora di più il rapporto artistico tra Italia e Israele.

Viviana Kasam