Israele e noi – JCall parte da Parigi con Yehoshua, Finkielkraut e Cohn-Bendit

“L’appello alla ragione degli ebrei europei”, il primo grande meeting di JCall, l’organizzazione dell’ebraismo europeo progressista si questa sera si tiene a Parigi. Al convegno hanno anunciato fra gli altri la loro presenza lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, il deputato francese Henri Weber, il filosofo ebreo Alain Finkielkraut e il leader dei verdi francesi, la terza forza politica alle ultime elezioni europee, l’ex leader sessantottino e leader politico Daniel Cohn-Bendit.
A una settimana di distanza dalle rivelazioni del Washington Times, che hanno fatto vacillare i vertici dell’organizzazione sorella d’oltreoceano J Street, gli ebrei europei che si dichiarano ‘per Israele, per la pace’ si riuniscono nella capitale francese per presentare al pubblico il loro movimento d’opinione.
Il quotidiano conservatore della capitale americana aveva pubblicato un’inchiesta sul finanziamento – tenuto segreto – del finanziere filantropo George Soros al movimento J Street. Ebreo di origine ungherese, Soros è un personaggio controverso, poco amato da tanti americani per le sue prese di posizione progressiste radicali, soprattutto contro l’amministrazione Bush. Avrebbe versato – secondo il Washington Times – 750 mila dollari in tre anni nelle tasche di J Street – pratica lecita nel sistema della democrazia statunitense – versamento che però fu pubblicamente negato da Jeremy Ben Ami, direttore esecutivo di J Street. L’insincerità, nella cultura e nella prassi politica americana, è la colpa più imperdonabile.
Nel momento della crisi della lobby ebraica liberal, il movimento europeo nato da una sua costola si presenta al pubblico parigino. Ne abbiamo parlato con il fondatore di J Call, David Chemla, ebreo di origini tunisine con la cittadinanza israeliana e francese.
Quali sono i vostri rapporti con JStreet ?
Si tratta solo di un’affinità ideologica, non abbiamo nessun collegamento organizzativo, siamo due gruppi indipendenti. J Street è una lobby, un soggetto politicamente attivo nella politica americana che raccoglie denaro ed esercita pressioni sul Congresso. Noi invece siamo un movimento d’opinione, non lavoriamo insieme ai partiti politici.
Che opinione vi siete fatti del caso Soros?
Che io sappia non è stato commesso alcun illecito. Anche l’Aipac (la lobby ebraica americana di orientamento conservatore) raccoglie donazioni, così come tutte le altre lobbies. Se Ben Ami ha mentito, se ne assumerà personalmente la responsabilità.
Come avviene la vostra raccolta fondi?
Noi, in quanto movimento d’opinione, non abbiamo un interesse primario a raccogliere denaro, come avviene in America. Abbiamo però aperto da poco un fondo donazioni, ma solo al fine di coprire le spese, come la gestione del sito e l’organizzazione degli eventi come quello di questa sera.
Quali sono, attualmente, le dimensioni di J Call?
Per ora abbiamo raccolto circa 7.500 firme. Voglio sottolineare la nostra dimensione europea. La presentazione di J Call tenutasi l’anno scorso al parlamento di Bruxelles ha un valore fortemente simbolico. Puntiamo a diventare una federazione di organizzazioni nazionali di ebrei liberal. Abbiamo un nucleo molto numeroso in Francia e in Belgio, alcuni sostenitori britannici, i gruppi intitolati a Martin Buber in Svizzera e in Italia, e pochi firmatari dell’appello nell’Europa orientale. Una settimana fa è stato fondato J Call Germania. Dobbiamo ancora crescere molto: in Italia siamo ancora poco seguiti, perciò, con David Calef, il nostro referente dal bel paese, stiamo pensando di organizzare un meeting come quello di stasera, a novembre.
Quali sono gli obiettivi politici di J Call?
Non assumiamo posizioni radicali, manteniamo una linea politica progressista e largamente condivisa. Siamo ebrei e sionisti, e in quanto tali siamo determinati ad esercitare il nostro diritto/dovere di criticare l’operato del governo israeliano nel merito delle sue scelte. Vogliamo aprire il dibattito nel mondo ebraico, proponendoci come alternativa a coloro che difendono Israele aprioristicamente, qualunque scelta compia, anche se contraria ai valori ebraici e democratici. Il popolo d’Israele è culturalmente una società aperta: nostro primo obiettivo è alimentare il dibattito sul futuro dello Stato ebraico.
Ci schieriamo decisamente a favore della soluzione dei due stati, l’unica che consentirebbe a Israele di rimanere uno stato democratico e con la maggioranza della popolazione ebraica.
I vostri critici affermano che voi danneggiate l’immagine di Israele in Europa, che già non gode di ottima salute. Come replicate a quest’accusa?
È esattamente il contrario. Mostrare che la minoranza ebraica non è rigida e monolitica non può che migliorare la sua relazione coll’esterno. Inoltre noi combattiamo la delegittimazione dello Stato d’Israele e lo supportiamo, anche se non sempre in accordo con le scelte del suo governo.
Quanta fiducia nutrite nei negoziati di pace in corso a Washingon?
Consideriamo un risultato importante la ripresa di negoziati diretti tra il governo israeliano e l’autorità palestinese, e siamo soddisfatti di come l’amministrazione Obama abbia preso a cuore la questione. Riguardo all’esito siamo ancora un po’ scettici, ma io non escludo che Netanyahu ci possa riservarci delle sorprese, non è un estremista. Siamo convinti che per il buon andamento dei negoziati sia essenziale una proroga della moratoria, che cessino le costruzioni di nuovi insediamenti. Abbiamo già perso troppo tempo, e il tempo, logorando gli animi delle popolazioni coinvolte, gioca a favore degli estremisti.

Manuel Disegni