Voci a confronto
Difficile districarsi tra le tante sollecitazioni di una settimana “vissuta pericolosamente”. Ci scusiamo anticipatamente con i lettori per l’obbligata selettività – nella rassegna di oggi più che in altre, precedenti edizioni – poiché momentanee difficoltà tecniche rendono difficile, per l’estensore, la lettura integrale dell’ampia messe di articoli che sono invece offerti. Certo, per la sua verace attualità il primo punto della rassegna stampa non può non essere dedicato alla serata di ieri, alla maratona al Tempio Adriano a Roma, dove dalle 18 in poi oltre ottanta tra artisti e politici nazionali e internazionali, alternandosi tra di loro con interventi brevi, non superiori ai cinque minuti, si sono pronunciati «Per la verità, per Israele». Ne parlano oggi diffusamente, tra gli altri, Andrea Garibaldi, su il Corriere della Sera, Emanuele Fontana per il Giornale, Enrico Singer su Liberal, Peppino Caldarola su il Riformista, Francesca Paci su la Stampa. La piattaforma sulla quale un così gran numero di importanti interlocutori, così come l’intero pubblico, sono stati chiamati a pronunciarsi, ruota intorno ad alcune parole chiave: la prima di esse è «delegittimazione» e rinvia sia alle raffigurazioni prevalenti nella stampa, e nei mezzi di comunicazione più diffusi, che a ciò che il linguaggio politico pronuncia quando deve fornire un giudizio sull’operato dello Stato ebraico. Un «doppio standard» che demanda, con asfissiante costanza, ad una severità di giudizio senza appello per Israele a fronte delle continue deroghe concesse ad altre nazioni. Ha avuto modo di affermare Fiamma Nirenstein, promotrice dell’appello di convocazione, che «la delegittimazione di Israele è un’arma del tutto ideologica, che nulla ha che fare con i fatti della storia. Nel corso dei decenni si è accompagnata alle più disparate ideologie, dall’antisemitismo all’antiimperialismo al terzomondismo. Oggi si affianca al palestinismo, una malattia tipicamente europea, che ha corrotto ogni decenza di linguaggio». A ciò poi aggiunge che «la delegittimazione ha le sue fortezze, soprattutto nelle istituzioni internazionali, in alcune vaste aree della comunicazione e nelle élite della sinistra radicale e della destra estrema». Nei giorni a venire è certo che i commenti e le valutazioni, non tanto sul piano degli eventi fattuali quanto su quello della ratio politica. proseguiranno. Peraltro, all’ampia schiera di sostenitori, corposamente bipartisan, si contrappongono posizioni critiche. Oggi le esprime un duro Roberto Della Seta, su il Manifesto al quale, sia pure involontariamente, risponde Dimitri Buffa su l’Opinione. Sia pure a titolo personale, e con accenti a tratti diversi, erano già state raccolte nell’intervista a Stefano Levi della Torre, firmata da Vittorio Bonanni per Liberazione di giovedì 7 ottobre. Per il noto studioso e scrittore, ora esponente di Jcall, il movimento che si pone in atteggiamento problematico rispetto all’attuale condotta della dirigenza politica israeliana, soprattutto per quello che riguarda il rapporto negoziale con i palestinesi, «la difesa d’Israele non riguarda soltanto i nemici esterni ma anche determinate politiche che lo danneggiano». In tale direzione il dissenso è declinato contro la manifestazione di ieri, intesa come opinabile «perché di fatto finisce per avallare la posizione che Netanyahu sta prendendo sul negoziato e che è contro la trattativa stessa, inserendo una contrarietà decisiva molto grossa che è quella delle ripresa degli insediamenti coloniali sulle terre palestinesi». In buona sostanza, riducendo la radice del confronto ai minimi termini, mentre i sostenitori dell’iniziativa promossa da Fiamma Nirenstein ritengono che le difficoltà in cui versa Israele siano ascrivibili, tra le altre cose, a un marcato difetto di sostegno al paese (nonché alle sue ragioni vitali), e con esso ai governi in carica, per chi invece si posiziona su un piano alternativo è «l’appoggio incondizionato che finora c’è stato nei confronti dei vari governi israeliani» a rappresentare un concreto rischio poiché, così operando, comprometterebbe quella pressione che è invece ritenuta indispensabile per una migliore evoluzione negoziale, soprattutto dinanzi agli scenari futuri che chiameranno in causa il paese. La tentazione più forte è quella di ricondurre le due distinte posizioni a due diversi campi politici che, per interposto oggetto, si confronterebbero in tale modo. In parte c’è anche del fondamento in ciò ma il riscontrarlo non esaurisce la complessità delle posizioni. Che sono divise tra di loro soprattutto dalla lettura non del presente bensì del divenire, dove non è detto che le due aggettivazioni dello Stato, democratico ed ebraico, possano continuare a coesistere senza lievitanti frizioni. Si vedano quanto scrivono oggi Lorenzo Bianchi per la Nazione, Sara Volandri per Liberazione, Eric Salerno su il Messaggero, Alberto Stabile per la Repubblica, Umberto De Giovannangeli su l’Unità sulla vexata quaestio del contenuto della formula del giuramento di fedeltà allo Stato per i nuovi cittadini. Il rapporto con i palestinesi, segnatamente, demanda a questo aspetto con particolare intensità: non è solo in discussione il futuro delle relazioni con una popolazione che vive a ridosso del paese ma è sotto la lente d’ingrandimento l’evoluzione interna d’Israele medesima. Sembrerebbe allora disporsi in tal senso quanto dichiara Tzipi Livni, leader di Kadima, il maggiore partito d’opposizione, a Umberto De Giovannangeli su l’Unità di ieri, soprattutto quando si sofferma, nell’ultima parte dell’intervista, sul concetto di “israelianità”. Interessante in tal senso è allora anche la lettura, sia pure in un testo obbligatoriamente sommario com’è quello che può essere ospitato dallo spazio di un articolo, che su il Messaggero di ieri Fabio Nicolucci fa parlando del «futuro di Israele tra destra e sinistra» laddove si registra che se «in tutto lo spettro politico israeliano e della diaspora c’è […] unanime consenso sulla diagnosi: Israele non è al sicuro». Mentre sulle strategie di risposta, invece, le strade divergono e di molto, arrivando in più passaggi addirittura a contrapporsi. Si tratta, a ben vedere, di ipotesi contrapposte che demandano a concezioni diverse della natura stessa d’Israele. Altra questione all’ordine del giorno – ma in realtà data già a qualche anno, come la resoconta Giampiero Calapà su il Fatto quotidiano, essendo lievitata come una di quelle torte un po’ asprigne che, messe in un forno, crescono, crescono, crescono fino poi ad implodere – è quella che si accompagna alle affermazioni che da tempo Claudio Moffa, docente all’Università di Teramo e titolare del Master dedicato alla memoria di Enrico Mattei, va facendo nel merito della (scarsa) verosimiglianza dell’«Olocausto», termine che noi virgolettiamo per ragioni esattamente opposte a quelle che il professore ritiene siano le più fondate. Ne parlano oggi, in quanto evento di cronaca, Francesca Nunberg su il Messaggero, Marco Pasqua per la Repubblica ma a rappresentare i nostri sentimenti è la lettera di Grazia Di Veroli su il Fatto quotidiano. Un altro tema che accompagnerà le settimane a venire è l’apertura del Sinodo speciale per il Medio Oriente, che avvierà i suoi lavori domenica. Una ricostruzione del quadro di riferimento è quella offertaci da Maurizio Crippa per il Foglio di giovedì 7 ottobre. Il complesso delle questioni è ripreso, nello stesso giorno, da Fulvio Scaglione su Famiglia Cristiana, che fa un ritratto delle comunità cristiane nella regione, e da Marco Burini su il Foglio di oggi. Se Parigi val bene una messa, quanto varrà Gerusalemme per i «santi padri» della Chiesa? Nei giorni prossimi ce lo racconteremo.
Claudio Vercelli
8 ottobre 2010