…cecità

Riflettendo con Scholem e con Kafka. Pochi giorni fa è cominciata nuovamente la lettura della Torah dal suo inizio, con i primi capitoli del Libro della Genesi, dalla creazione del mondo alla cacciata di Adamo e di Eva dal Giardino dell’Eden. Dopo aver mangiato il frutto proibito, “si aprirono” gli occhi di Adamo e di Eva, che acquistarono la consapevolezza del loro stato, con quel che segue. La haftarah che accompagna questa parashah è tratta da Isaia 42 : la creazione del mondo, già dal suo inizio, viene corredata dal suo necessario “correttivo”, il Messia. Isaia ce lo descrive come il “cieco” per eccellenza: “Chi è cieco come il perfetto? Cieco come il servo del Signore? […] Il Signore vuole, per via della Sua giustizia, che egli dia un grande e forte insegnamento” (Isaia,42: 19-21). Mentre l’esegesi rabbinica interpretava la cecità come incapacità di Israele di comprendere le opere di Dio, per cui solo Dio stesso avrebbe potuto ammaestrarlo (cioè “aprirgli gli occhi” in un senso diverso da quello che derivò all’uomo dall’aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza). Gershom Scholem giungeva a conclusioni diverse. Nelle sue “95 Tesi sull’ebraismo”, scritte nel 1918 (poco più che ventenne), scriveva con intuizione folgorante: “Solo il cieco contempla il tempo messianico”. Laddove gli occhi di Adamo si sono “aperti” a quella che, dopo di lui, è apparsa come la comune realtà umana, gli occhi del Messia ad essa sono chiusi, per riuscire a scorgere quello che l’occhio umano non può cogliere. In questo senso, Scholem interpreta le parole di Isaia sulla cecità messianica : “Molto vede, ma non ne tiene conto. […]”: il mondo va come, in realtà, è sempre andato, ma bisogna lasciar entrare il vento dell’utopia per scompigliare l’ordine risaputo e permettere al “nuovo” di far capolino. Il negativo, dice Scholem rifacendosi a Kafka, è sempre ben presente di fronte ai nostri occhi, ma val la pena di ricordare che allude con richiamo potente alla ricerca del positivo, che è il nostro compito di esegeti di un testo di cui abbiamo perso la chiave.

Marina Arbib, germanista